Uomini-base

– Scusi, ma Gianni non lavora più qui?
– Gianni chi? Non lo conosco!
– Ma come? Era il barman capo di questo bar da tanto tempo?
– Io, lavoro qui da due anni e non ho mai sentito parlare di lui.

Tutto era cominciato con queste domande e queste risposte infastidite. 
In effetti, lei non aveva più avuto modo di tornare in quell’isola da tre anni.
Un’isoletta istriana, che un tempo era stata la dimora di un famoso dittatore, oramai quasi dimenticato.
Certo lei non s’aspettava di trovare tutto come l’aveva lasciato.
Tanto tempo prima, aveva letto un impervio saggio di un noto filosofo danese, citatissimo, ma di cui quasi nessuno capisce granché.
Si trattava de La ripetizione di Søren Kierkegaard*.
Riguardava la storia di un ragazzo innamorato, che abbandonava la fanciulla amata e finiva poi per macerarsi.
Storia che l’aveva lasciata indifferente.
Quello che l’aveva intrigata era, invece, una vicenda capitata al confidente del ragazzo: una specie di dandy, piuttosto annoiato.
Ebbene, costui aveva pensato di dare una svolta alla sua esistenza tornando a Berlino, dove, pochi anni prima, aveva seguito dei corsi universitari e aveva condotto una vita spensierata.
Tutto questo ripescaggio del passato si era rivelato un grosso fallimento. L’allegro padrone di casa, di un tempo, si era sposato, gli spettacoli teatrali, che lo avevano deliziato, non lo divertivano più e via di questo passo.
Se ne deduceva che ogni ripetizione non solo è impossibile, ma addirittura deleteria.
Sicché, dopo aver letto questo saggio filosofico, lei già sapeva che non doveva aspettarsi che il mondo restasse fermo ed immutabile solo per farle piacere.
Aveva constatato subito che la grande voliera di un vecchio cacatoa, che il dittatore aveva regalato circa sessant’anni prima ad una sua nipote, era vuota.
Il volatile non era morto e, longevo com’era, probabilmente l’avrebbe seppellita, ma era diventato oltremodo irritabile. Troppi visitatori di varie nazionalità lo interrogavano in più lingue e il pappagallo poliglotta rispondeva sanguinosi improperi nell’idioma in cui era stato interpellato. Questo cerimoniale, continuamente ripetuto, aveva finito per esaurirlo.
Probabilmente era stato trasferito in un’uccelliera, lontano dagli importuni.
Chissà? Forse il povero cacatoa – che si chiamava Koki – adesso era triste e si annoiava.
Ma alla scomparsa del pappagallo era preparata perché si sapeva che sarebbe stato messo in pensione prima o poi.    
Per Gianni era un’altra storia: era la persona cui era più affezionata in tutta l’isola. Molti camerieri si erano avvicendati in quel bar, ma lui ne era sempre stato la colonna portante: l’insostituibile.
Ma soprattutto Gianni apparteneva ad una categoria per lei ristrettissima quanto preziosa: quella degli uomini-base.
Chiamava così quei pochissimi uomini sul cui aiuto, senza secondi fini, poteva contare incondizionatamente.
Erano uomini sempre pronti a soccorrerla quando non sapeva cavarsela in situazioni nuove e difficoltose. Non erano affatto suoi adoratori, né tanto meno suoi servitori, ma erano uomini dotati di grande senso pratico e competenze rare. Competenze che sapevano trasmetterle senza nessuna spocchia.
Nell’Appennino tosco-emiliano, dove aveva una decrepita casa di famiglia, da sempre ne aveva avuti un paio. Le avevano insegnato tutti i trucchi per accendere il fuoco nel camino e poi non farlo morire. Grazie a loro sapeva scegliere gli alberi adatti per la legna da ardere, riconoscere gli uccelli dal loro canto e gli animali selvatici dalle loro fatte, prevedere i mutamenti del tempo dalla posizione delle nuvole, questi e tanti altri accorgimenti fondamentali per sopravvivere.
Gianni, dal canto suo, le aveva insegnato qualche espressione della lingua croata, a cominciare dalle formule di cortesia, che la rendevano subito più accetta agli autoctoni, talora ispidi. Inoltre, le aveva fornito una serie di vocaboli utilissimi per fare delle ordinazioni competenti al bar o al ristorante.
Gianni correggeva la sua pronuncia con grande pazienza e dolcezza e spesso scriveva intere frasi su un quaderno che lei gli porgeva. E lo faceva con una limpida grafia da scolaretto zelante d’altri tempi, che la commuoveva.
Il fatto è che lei detestava l’inglese, che si ostinava a non imparare. E le due lingue in cui era solita esprimersi con una certa disinvoltura (il francese e lo spagnolo), nell’isola, non le servivano proprio a nulla.
Gianni, invece, era davvero poliglotta. Parlava perfettamente l’italiano ma anche tante altre lingue.
E poi – inutile negarlo – Gianni era piuttosto piacente, parlava e si muoveva con eleganza. Alto, snello, lineamenti fini, folti capelli neri, occhi vivaci e soprattutto un bellissimo sorriso.
Negli ultimissimi anni, gli uomini-base degli Appennini erano morti.
Un grande dolore, ma almeno avevano fatto in tempo ad invecchiare.
Gianni, invece, anche se non era più nel fior degli anni, sembrava ancora un ragazzo.
Insomma, perdere Gianni era veramente troppo per lei.
Sperando che non fosse passato a miglior vita, dov’era finito?
Cominciò a cercare sue tracce alla Reception dell’hotel, l’unico in tutta l’isola, ma là tutto il personale era cambiato e nessuno seppe rispondere alle sue domande.
Chiese di Gianni a quelli che noleggiavano le biciclette, ma, anche là, trovò solo volti di perfetti sconosciuti.
E anche là, come altrove, s’imbatté solo in ragazzetti sgarbati.
Quasi ogni sera, prendeva un battello e si recava a cenare in un paesino sulla costa, dove, in passato, le era capitato di vedere Gianni pedalare senza fretta sul lungomare.
Ma era successo solo rarissime volte.
Inoltre, in quella stagione, il paese era zeppo di turisti e non c’era piazzetta o calle che non fosse strapiena di tavolini o di gente a zonzo. E ogni anno si moltiplicavano i locali e i vacanzieri che li affollavano.
Perciò era quasi impossibile contare su un colpo di fortuna: su un incontro casuale.
Riprese in mano il quaderno dove conservava tutte le preziose righe scritte da Gianni. Lo aveva trovato nel disordine del suo tavolo cittadino, sepolto sotto una pila di libri e di bollettini postali e lo aveva prontamente gettato in valigia, prima di partire.
Là c’erano tutti i suoi miseri tentativi di scrivere delle frasi in croato. Frasi che poi lei sottoponeva a Gianni, tra una dupla kava* e una krempita*.
Al che, lui riscriveva sotto la frase nella sua forma corretta.
Ebbene, della grafia di Gianni più nessuna traccia.
Possibile che avesse sbagliato quaderno?

Ma, accidenti, mi ricordo benissimo che quel quaderno lo usavo solo per i miei esercizi di croato!
Se mi veniva voglia di scrivere qualche pagina di diario, tipo quanto era fulgido un tramonto, quanto profondo il silenzio nel fitto degli alberi o come fosse una gran figata fare il bagno tra il turbinio dei pesci e le rovine romane sommerse, oppure commenti caustici su passati amori, beh, lo scrivevo in altri quaderni.
Quel quaderno là, aveva una copertina rosso fuoco proprio per non confonderlo con gli altri.
Gli altri quaderni li lasciavo a casa e portavo con me solo questo. Se volevo fissare nuove sensazioni istriane o evocare ricordi del passato, ne comperavo uno nuovo in paese.
E questo quaderno qua mica ha la copertina gialla!
Ecco, mi ricordo benissimo di una mattina che volevo far bella figura.
Sì, volevo comunicare a Gianni che avevo fatto uno splendido bagno in una certa baia.
M’ero impegnata di brutto, avevo compulsato frenetica il mio vocabolarietto, coniugato i verbi, badato al caso dei sostantivi, alla posizione degli aggettivi e, ovviamente, era stato un gran  fiasco lo stesso.
Vediamo se trovo quella sparata così lunga.
Ah, eccola! E c’è pure la data: dodici anni fa!
Dodici anni, oddio, dodici anni !!!
Mi ricordo come se fosse successo da un’ora il sorriso di Gianni, attento a non scoraggiarmi ma intenzionato lo stesso a correggermi. E poi mi ricordo come, deposta la penna, avesse pronunciato quelle parole col suo bel timbro basso, maledettamente slavo.
E qua cosa vedo? Solo i miei scarabocchi!
No, non è possibile!

Un gran brutto colpo!
Sì, perché aveva cominciato a dubitare della sua tenuta psichica. Peggio, temeva di essere affetta dai primi sintomi di una malattia mentale.
Non osava più riaprire quel quaderno, che pure le sarebbe stato utile, visto che, dopo tre anni, aveva cominciato a dimenticare quel pochissimo croato che sapeva.
Non aveva più nemmeno il coraggio di sfogliare sistematicamente tutte le pagine per controllare meglio se, in qualcuna, si nascondesse una minima traccia della scrittura di Gianni.
Appena toccava quel quaderno, subito ritraeva le mani come se scottasse.
Alla fine, decise di disfarsene. Lo gettò in un bidoncino della raccolta differenziata, quello delle carta, che era già bello pieno.
La mattina dopo andò a controllare se il quaderno rosso fosse ancora là e trovò il contenitore vuoto: i solerti spazzini dell’isola passavano all’alba.
Si sentì alleggerita, ma il sollievo durò poco.
Quella sera stessa, mentre stava per imbarcarsi per il litorale, incrociò sul molo un’elegante signora, che conosceva molto superficialmente e che, comunque, era la prima persona che riconosceva. Di tutte quelle facce di turisti, che aveva notato in passato, non ne aveva più rivista nessuna.
Un tempo, alcune persone frequentavano l’isola addirittura da una trentina d’anni e vi era un gruppetto di habitués che soleva cenare nello stesso tavolo o in tavoli vicini.
Tutti costoro erano molto più avanti di lei con gli anni e avevano consuetudini differenti dalle sue.
Lei era molto mattiniera e preferiva far colazione già alle sette per poi inforcare la bicicletta, andare in cerca di rovine romane o paleocristiane, di cervi vagabondi e, da ultimo, di una baietta solitaria dove fare un lungo bagno.
Invece, i fedelissimi dell’isola si alzavano tardi, sicché non li incontrava al buffet della prima colazione. Nessuno di loro prendeva a nolo una bicicletta. Un po’ perché erano pieni di acciacchi e un po’ perché non ne avevano bisogno: frequentavano uno stabilimento balneare, l’unico attrezzato con docce e cabine, raggiungibile a piedi dall’hotel.
Stabilimento affollato, che lei evitava come la peste.
Tuttavia benediceva quel bagno perché aveva il pregio di concentrare in uno spazio assai ristretto la quasi totalità dei soggiornanti, bambini compresi, e di lasciare deserto il resto dell’isola.
Di questi suoi conoscenti nessuno s’imbarcava la sera per poi rientrare nell’isola a notte fonda, come faceva lei. Tutti cenavano nell’hotel e non mettevano piede sulla terraferma se non quando arrivavano o partivano.
Ne aveva conosciuti alcuni perché, una sera, invece di imbarcarsi, si era fermata nel déhors dell’albergo, incuriosita dall’esibizione di un fisarmonicista e di una cantante che avevano un repertorio di musica balcanica.
Di solito, rifuggiva da quei concertini, che giudicava dozzinali, e rientrava nell’isola quando erano già finiti. Ma una sera aveva voluto provare ad ascoltarne uno.
La cantante aveva una voce profondissima da contralto che assomigliava di più a quella di un basso e il musicante sapeva trarre dalla fisarmonica sonorità molto variegate.
I due erano particolarmente versati nella musica popolare russa, con melodie che prendevano il pubblico fin dalla profondità delle viscere. Il tutto alternato da strani canti zingari, ora languidi e ora indiavolati. Un repertorio apparentemente banale ma che, invece, si era rivelato sorprendente e per nulla scontato.
Alla fine dello spettacolo, una signora elegantissima le aveva fatto i complimenti per come aveva seguito attentamente la musica e le si era presentata, proponendole subito dopo i suoi amici.
Di quel gruppetto, i cui nomi dimenticò quasi subito, la signora era l’unica non accoppiata.
Successe allora che, quando lei rientrava tardi nell’hotel, li trovava quasi tutti ancora seduti nel déhors, al che, spesso l’invitavano ai loro tavoli per il bicchiere della staffa.
Non sempre accettava, ma preferiva ritirarsi in stanza, fingendosi stanca.
L’ultima volta che era stata nell’isola, aveva fatto un soggiorno più prolungato del solito e, ad un certo punto, quasi tutti gli habitués erano partiti e lei si era trovata a scambiare più di qualche chiacchiera con la signora elegante, che era una gran viaggiatrice e che aveva modi molto garbati. Si trattava, insomma, di una sorta di sopravvissuta del cosmopolitismo d’altri tempi.
Erano arrivate fino a darsi del tu.
Ebbene, la signora stava arrivando sull’isola, carica di bagagli, e lei stava invece imbarcandosi sul traghetto per andare a cena.
Si scambiarono un rapido saluto con l’intesa di rivedersi dopo il rientro dell’ultimo battello.
Si ritrovarono nella terrasse dell’hotel e la signora la rese, innanzi tutto, edotta sulle recenti disgrazie di tutti i suoi amici che, nel frattempo, o erano morti o, rimasti vedovi, erano caduti in depressione e non avevano più voluto tornare nell’isola.
Ecco perché erano spariti tutti gli habitués, rifletté lei.
Ma, dopo che ebbe commentato con la signora che tutto il personale era cambiato, e in peggio, era desiderosa di portare il discorso su certo terreno.

– Te lo ricordi Gianni?
– Gianni? Ma chi?
– Ma sì, quel barman che stava, non nel bar dell’hotel, ma in quello là in fondo: quello che è aperto solo nelle ore centrali della giornata.
– Non vado mai in quel baretto.
– (Eh, lo so snob come sei, ti piace solo quello dell’hotel. Il bar periferico lo disdegni perché non è abbastanza chic o, meglio, lo disdegnavi…).
– Ma non è vero! Ti ci ho portata io perché ti lamentavi che l’espresso dell’hotel non era di tuo gusto. Mentre là lo facevano buono. Tanto è vero che poi ci sei tornata anche senza di me.
– Dici? Non me lo ricordo proprio.
– Beh, Gianni era il barman di quel bar. Mi ricordo che avevi notato come fosse affascinante.
– (Con gli occhi te lo mangiavi, inutile che fai l’innocentina!).
– No, guarda, ti sbagli!
– Ma dai, quello alto, moro e ancora giovane.
– Ma se ti dico che io in quel bar non ci sono mai andata. E poi, se là c’era un bell’uomo, lo avrei notato.

Capì che non era il caso di insistere.
Dapprima pensò che la signora non volesse ricordare come aveva guardato Gianni.  
Ma poi cominciò a temere il peggio: che Gianni non fosse mai esistito.

E se stessi diventando pazza!
E se tutta ‘sta storia degli uomini-base fosse solo un mio delirio?
Magari, quando torno in Italia, scopro anche che quei due in montagna me li sono inventati.
No, là ci sono troppe persone che li hanno conosciuti e sono tutte ancora vive e vegete.
No, sugli Appennini non penso proprio che avrò brutte sorprese.
Mi devo concentrare su Gianni.
Manteniamo la calma!
Facile che la signora si voglia dare un contegno.
Oppure quella è un po’ svanita e non si ricorda un tubo.
E se invece non è svanita e la pazza fossi io?
Calma!
Gianni va ritrovato ad ogni costo!
Altrimenti pazza ci divento sul serio!
Ah, adesso mi ricordo.
Una volta avevo chiesto a Gianni dove andasse di solito a bersi una birra. Un posto dove non ci fossero turisti.
Sì, perché lui doveva averne le scatole piene dei turisti, che si sorbiva per troppe ore al giorno.
Allora, lui mi aveva parlato di un pub molto nascosto, frequentato solo da abitanti della zona, dove si rifugiava finito il turno di lavoro.
L’avevo anche cercato ‘sto maledetto bar, ma poi non l’avevo trovato. 
Bisogna che lo cerchi meglio.
Forse Gianni lo frequenta ancora.
Stasera ci riprovo, prendo il traghetto prima e voglio vedere io, se non lo becco!
Ecco, mi ricordo che mi aveva parlato di un passaggio strettissimo tra una pasticceria e un ristorante di pesce.
Sempre sul lungomare.
Pasticcerie ce ne sono a bizzeffe e pure ristoranti di pesce, si tratta di trovare questa accoppiata. Il paesetto non è mica New York! Devo farcela!

Aveva rinunciato a bersi l’aperitivo sul molo e aveva battuto lentamente il lungomare. Aveva scartato le gelaterie, che erano tante, e si era concentrata sulle pasticcerie.
Finalmente aveva visto un ragazzino sparire all’improvviso in un pertugio, di fianco ad una panetteria, che però vendeva anche buonissimi dolci e paste succulente.
E, dall’altro lato di quella angusta calletta, c’era proprio un ristorante di pesce!
S’infilò anche lei nel passaggio e, con sua sorpresa, si trovò in uno slargo: un cortile interno.
C’era una rigogliosa pianta di oleandro che era un vero e proprio albero. I rami fioriti nascondevano una porta d’accesso ad un locale.
Entrò col cuore in gola.

Accidenti, che ma com’è scuro qua dentro!
E che facce! Se i tempi non fossero cambiati, direi che sono dei pirati.
No, ecco, sembrano tutti pescatori, ma di quelli che se la passano male.
O hanno perso il lavoro o son sempre con le reti vuote.
E si lavano a Pasqua!
E mi guardano pure storto…
OK, sono un’intrusa…
Forse è meglio che me ne vada.
Ma, accidenti, sono stata in postacci molto meno raccomandabili, a Barcellona, tanti anni fa.
Sto rammollendomi, no, col cavolo che me ne vado!

Sicché, rimasee ordinò una birra alla spina, raccomandando che non fosse grande.
Le arrivò un boccale enorme.
Nella densa penombra, in un angolo, quello più immerso nell’oscurità, intravide una figura che le era vagamente familiare.
Il cuore rallentò i suoi battiti perché le parve di riconoscere… Gianni.
L’uomo era quasi di tre quarti, la figura era appesantita.
La maglietta sformata lasciava indovinare un ventre prominente e gonfio, da bevitore incallito.
Le guance erano interamente ricoperte da quella peluria tipica di chi non si fa crescere la barba, ma si rasa di rado.
Tuttavia, quel profilo, quel naso sottile sembravano i suoi.
Immobilizzata lo fissava, non osando alzarsi per vederlo meglio e più da vicino.
Era paralizzata da una timidezza sconosciuta.
Senza nemmeno chiedere il conto, lasciò sul tavolo una somma spropositata e si diede alla fuga.
Si rifugiò correndo in un ristorante sul lungomare, dove cenava spesso.

Che stupida a darmela a gambe in ‘sta maniera!
Oltre tutto, così, non saprò mai se quello era Gianni o no…
Certo che, se è lui, è proprio ridotto male!
No, là dentro è chiaro che non ci posso più tornare…
Rimarrò per sempre col dubbio di essermelo sognato Gianni, in tutti questi anni.
Oddio, mi sento impazzire!

Non gustò per nulla la cena. Eh sì che c’erano delle ottime sardelle ai ferri, delle patate alla dalmata e, infine, delle palacinke* alle noci: tutte cose che le piacevano parecchio.
Si versava meccanicamente del Malvasia, un bicchiere dopo l’altro.
Si alzò che le girava la testa.
Guardò l’orologio e vide che rischiava di perdere l’ultimo battello.
Arrivò sul molo trafelata e si sentì chiamare per cognome da una voce non del tutto sconosciuta.
Era il portiere di notte, che non aveva visto ancora quell’anno, anche perché lei alloggiava in una dépendance dell’hotel.
In genere, preferiva portarsi dietro le chiavi della stanza e, così, non andava quasi mai alla Reception, e ancor meno dopo cena.
Ebbene, il portiere di notte era l’unico del personale di un tempo, che sinora le fosse capitato di rivedere.
Gli si rivolse come ad un Messia.
Commentò con lui i drastici mutamenti degli ultimi anni.
Finalmente qualcuno a cui domandare di Gianni!
E venne a sapere che l’hotel era caduto in mano ad una società privata senza scrupoli, che aveva licenziato quasi tutti e aveva preferito assumere dei ventenni insipienti, che pagava molto di meno.
C’erano state pochissime eccezioni e il portiere era una di queste.
Ma, allora, Gianni?
Gianni non faceva più il barman ma il marinaio, insomma, lavorava nel traghetto.
Ma come mai non l’aveva visto in tutti quei giorni?
Semplicemente perché si occupava quasi esclusivamente dei tragitti in pieno giorno: giusto quelli che lei non frequentava mai.
Forse, però, Gianni sarebbe stato di turno proprio quella notte.
Subito dopo, lei lo vide arrivare con passo assai svelto sul molo, fare un balzo felino dalla banchina alla prua, dove stavano i macchinisti.
Lei, che come tutti i passeggeri, i pochissimi che cenavano a terra, stava a poppa, dovette aspettare l’attracco, per vederlo meglio.
Già dal salto che aveva fatto, si deduceva che era ancora più snello di un tempo.
E anche prima aveva una figura molto asciutta.
Gli poté parlare per pochi istanti, mentre lui, dopo aver gettato una fune con tanto di nodo aperto sulla bitta, stava una stendendo la passerella.
Aveva centrato la colonnetta di ghisa al primo colpo, come un virtuoso lanciatore di lazo.
Che destrezza in quelle mani che per tanto tempo avevano agitato lo shaker e maneggiato delicatamente tazze e bicchieri!
Gianni la riconobbe e le sorrise.
Un sorriso radioso.
E le disse che era meglio così: che si era stufato a fare il barman.
Non ne poteva più di rispondere tutto il giorno ai turisti, come il povero Koki.
Senza però potersi sfogare, cosa che il bisbetico cacatoa poteva fare.
Gianni sembrava perfettamente felice, sbarbato di fresco e finalmente abbronzato.
Insomma, era ringiovanito di almeno dieci anni.
Anche lei si sentì rinascere.
Per tutto il tempo che restò ancora sull’isola, non lo incrociò più.

NOTE
* Søren Kierkegaard, La ripetizione. Esperimento di psicologia sperimentale, a cura di Dario Borso, Milano, Rizzoli, 1996 (ed. or. 1843); io preferisco un’ed. it. ben precedente: La ripresa, a cura di Angela Zucconi, Milano, Edizioni di Comunità, 1954.
* caffè doppio.
* delizioso dolce croato a base di crema pasticcera e pastasfoglia.
* sorta di crêpes diffuse in tutto mondo slavo.

(Appendice)

Gratitudine

– Ciao!
– Ciao!
– No ciao a te! Ciao a…

Lei ci rimase piuttosto male quando una bimba di tre anni, assai mingherlina, indicò col suo scuro ditino la destinataria del saluto: la gelataia.
Stavano, infatti, facendo la fila davanti ad una bottega dall’insegna alquanto pretenziosa: L’isola del gelato.
La bambina aveva due codini sbarazzini, una gonnellina a pieghe e, soprattutto, un musetto indisponente con degli occhietti vivacissimi.
Forse era somala, ipotizzò lei.
La conferma la ebbe quando il suo sguardo cadde sulla madre, giovanissima e con lineamenti di una nobiltà e di una purezza straordinarie.
Lei cedette il suo posto al duetto di colore, ordinò il suo cono e andò a delibarlo, defilandosi.
Si diresse poi alla fermata del bus.
Là, due turisti tedeschi piuttosto in carne, specie la ragazza, occupavano tutta una panchina.
All’improvviso la bimba somala attraversò di corsa la strada, trafficatissima e in curva. Un’automobile e, subito dopo, una moto la mancarono di poco.
Nel frattempo, la madre, inconsapevole della catastrofe appena sfiorata, rovistava con impegno, a capo chino, in un borsone.
Aveva palesemente perso d’occhio la figlioletta.
Tutto avvenne in pochissimi secondi.
La bambina, arrivata miracolosamente illesa vicino alla fermata del bus, stava per attraversare una seconda volta la strada, per tornare dalla mamma.
Di lato alla bimba spericolata, stazionava la coppia dei tedeschi, che non davano nessunissimo segno di voler intervenire.
Al che, lei, che era più discosta, d’impulso, si gettò sulla piccola, con dei riflessi che non si sarebbero sospettati per i suoi anni, non più verdi.
La bimba, bloccata con una certa energia, cominciò ad urlare.
E allora la madre sollevò la testa e finalmente si rese conto del pericolo corso dalla monella. Attraversò lesta la strada, la ringraziò e somministrò alla figlia un sonoro ceffone.
Un mormorio di disapprovazione si sollevò dalla coppia dei Tedeschi.
Lei conosceva poco e male la loro lingua ma intuì benissimo che trovavano sommamente disdicevole picchiare una bimba indifesa.

Ma razza di stronzi!
Eravate ad una spanna da quella peste di bambina e non avete mosso manco un dito!
Se fosse stato per voi, quella streghetta sarebbe morta di sicuro.
Razzisti di guano!
E, adesso, con la puzza sotto il naso, vi permettete di decidere cosa è “politicamente corretto” e cosa non lo è!
Ma andate a farvi fottere!
Ahi!
Sicuramente mi sono pure beccata uno strappo!

Arrivò il bus, salirono nell’ordine: prima i tedeschi, poi le somale e, per ultima, lei.
La bimba si voltò e, di nascosto, le fece una linguaccia.

(Isola d’Elba, settembre 2022)