Scrittura di viaggio

Non di rado, c’è un problema in letteratura: come comunicare l’intensità emotiva di un vissuto?
Pensiamo alla memoria involontaria di Proust, che può essere visto come un espediente per aggirare questo ostacolo.
Invece, una certa frequentazione coi libri di viaggio mi ha fatto vedere le cose da un punto di vista diametralmente opposto.
Ebbene, non si tratta più di rendere comunicabile (con la scrittura) un vissuto, si tratta, piuttosto, di vivere creando un vissuto degno di esser comunicato.
Insomma, si ha già in mente che si vivrà un’avventura.
Ovviamente, non senza filtri.
Ad esempio, ho letto Mani (edizione originale inglese 1958, edizione italiana, Milano, Adelphi, 2004) di Patrick Leigh Fermor (1915-2011) prima di partire per il Peloponneso e, nonostante non s’andasse più a dorso di mulo, ho poi visto tutto attraverso gli occhi di questo grande viaggiatore inglese.
Il bello è che proprio in Fermor trovai conferma di questo movimento all’inverso, tipico, a mio avviso, della migliore scrittura di viaggio. E lo trovai in un altro suo libro di memorie: Tempo di regali (edizione originale inglese 1977).
In questo libro Fermor comincia a raccontare il mitico viaggio della sua giovinezza, intrapreso a 18 anni, alla fine del 1933 e conclusosi due anni dopo.
Insomma, Fermor andò a piedi, zaino in spalla, da Londra a Istanbul… non so se mi spiego!
Fermor premette che da ragazzo ne aveva abbastanza delle coercizioni delle scuole inglesi degli anni ‘30 e non perché non fosse un ragazzo studioso, anzi! Era un amante delle lingue morte, ma totalmente insofferente di ogni rigida disciplina imposta dall’alto.
Dapprima si limita a calarsi nottetempo dalle finestre del convitto e vagabondare, poi viene scoperto a fare una dichiarazione d’amore ad una bella verduraia, sicché scandalo enorme ed espulsione dalla scuola.
In seguito, frequenta una scuola militare da esterno e con un tutore, per sua fortuna non dickensiano ma assai simpatico, che lo porta a teatro a Londra.
Tuttavia, Fermor ne ha lo stesso abbastanza di quel tipo di vita e decide di partire.
Vi ricopio un brano parecchio significativo:

Cambiare panorama: abbandonare Londra e l’Inghilterra e andare in giro per l’Europa come un pellegrino (…) un chierico vagante, un cavaliere povero (…). Mi sarei spostato a piedi, avrei dormito coperto da mucchi di fieno d’estate, cercando rifugio nei granai quando pioveva o nevicava, e avrei frequentato solo gente di campagna e vagabondi. Se fossi riuscito a vivere di pane, formaggio e mele, spostandomi lentamente con cinquanta sterline all’anno (…) mi sarebbero anche rimasti gli spiccioli per fogli e matite e di tanto in tanto un boccale di birra.   

Una nuova vita! Libertà! Qualcosa da scrivere!

(Tempo di regali, traduzione italiana di Giovanni Luciani, Milano, Adelphi, 2009, pp. 28-29).