Le Sirene e i Lotofagi son forse parenti?

Sono giorni o, meglio, mesi bui anche perché questa maledetta seconda ondata della pandemia sta impedendo a quasi tutti di spingersi troppo lungi dalle proprie, comunque anguste, dimore. 

Come reagire?

Non so voi, ma io mi rifugio nei vividi ricordi di passati viaggi.

Ma non sempre queste rimembranze ci bastano, al che, una gran consolazione può venire dall’immergerci nell’ennesima rilettura dell’Odissea e, in particolare, dei libri dal nono al dodicesimo, dove stanno racchiuse le peregrinazioni di Ulisse: le sue traversate per mare e i suoi approdi in terre spesso insidiose.

Seguiamo, allora, ancora una volta Ulisse dopo che ha doppiato il procelloso capo Malea: ultima propaggine della penisola, quella più a est delle tre, in cui si sfrangia la parte estrema del Peloponneso. Una sorta di minaccioso artiglio che si protende avido verso l’isola di Citera e, più a sud-est, verso Creta.

Ebbene, doppiando quel capo, Ulisse s’immette in un mondo sconosciuto dove non vigono più le normali leggi dell’ospitalità, che tutelavano lo straniero allorché chiedeva asilo e protezione.

In questo mondo altro si possono, perciò, incontrare esseri misteriosi, sovente giganteschi e antropofagi: è il caso dei Ciclopi e dei Lestrigoni o si può finire preda di orridi mostri marini come Scilla e Cariddi.

Questo è anche il mondo delle Sirene e della maga Circe, accomunate tutte da una voce melodiosa, ma nondimeno estremamente pericolose: pronte, le prime, a divorare gli stranieri e, la seconda, a far mutar loro di sembiante.

A capo Malea, anche altri eroi vi avevano trovato violente tempeste: era passato di là Menelao che, sospinto dalla furia dei marosi, aveva visto parte delle sue navi far poi naufragio a Creta (Od. III, 287-301), mentre lui, scampato alla morte, approdava poi in Egitto.

Dalle parti di Malea era transitato anche suo fratello Agamennone, apparentemente più fortunato, perché risparmiato dalle onde, ma solo per venire poi trucidato, una volta rientrato nella sua terra, dai subdoli inganni di Egisto (Od. IV, 514-535). 

Potremmo dire che, come da copione, Ulisse, doppiata quella famigerata rupe, viene rapito dalle correnti e dai venti, perde la rotta e, per ben nove giorni, va alla deriva per poi finire in una landa sconosciuta (Od. IX, 80-90).

Ebbene, l’ingresso in questo mondo ignoto non sembrerebbe essere traumatico, tuttavia…

Ulisse aveva mandato in avanscoperta tre uomini per cercare di capire quali fossero gli usi e costumi degli autoctoni e gli esploratori non avevano fatto ritorno.

Perché mai?

Non certo perché erano stati trucidati, ma perché avevano assaggiato il frutto del loto di cui si cibavano gli abitanti di quella terra, i quali, per l’appunto, si chiamavano Lotofagi. Ed erano stati i Lotofagi stessi (Od. IX, 91-102) ad offrir gentilmente agli stranieri il loro alimento preferito.

Ora, non ha tanto senso che stiamo a ipotizzare dove si trovasse la terra dei Lotofagi – nell’attuale Libia, se si dà retta ad Erodoto (IV, 177) – né che facciamo congetture su che tipo di pianta potesse essere il loto. Quello che ci interessa è, invece, porre attenzione agli effetti prodotti dal loto, effetti su cui, peraltro, Erodoto non dice manco una parola.

Ci basti sapere che chi mangiava il lotós desiderava continuare a farlo – dunque, dava immediata assuefazione – e, nei compagni di Ulisse, cancellava la voglia di fare ritorno (nóstos), inizialmente dagli altri compagni, che li stavano aspettando, e, più in generale, nell’isola natia. Ovvero ad Itaca.

Mangiare il “dolcissimo frutto del loto” (Od. IX, 94) aveva, insomma, l’effetto di minare la ragion d’essere della stessa Odissea, che aveva come perno, appunto, il tema del nóstos.

Quanto ai pacifici e indolenti Lotofagi, potremmo dire, volendo esprimerci in termini spicci, che erano dei “drogati”.

A onor del vero, mai il loto viene definito con la parola greca che rende l’idea di “droga” ossia phármakon. Poiché phármakon – termine ambivalente che può significare sia “medicamento” che “veleno” – vien detto, casomai, quello che Circe ammannisce ai compagni di Ulisse per trasformarli in porci (Od. X, 235-240; si noti, per inciso, come pure questi recenti suini dimentichino la terra dei padri, Od. X, 236).

Sempre phármakon è detta quell’erba prodigiosa (Od. X, 287-292) che vien fornita, quale “controveleno” (Od. IV, 313-314), da Hermes ad Ulisse perché resista agli incantesimi della maga.

E, infine, sempre phármakon è definito quel filtro anestetico e analgesico (il nepenthés) che Elena somministra, di soppiatto, a Telemaco e a Menelao per farli smettere di piangere e di soffrire (Od. IV, 220-227).

Quanto ai compagni di Ulisse, una volta assaggiato il loto, si comportano esattamente come noi ci aspettiamo si comportino gli attuali “tossici”: diventano tossico-dipendenti e possono esser disintossicati solo con la coercizione, separandoli a forza dai loro pusher.

Che fa, infatti, Ulisse? Trascina a forza i tre drogati, in lacrime, alle navi, li lega ben stretti e li scaraventa sotto-coperta. Contemporaneamente, ordina a tutti gli altri di salpare velocemente da quella terra pericolosa, prima che assaggino anche loro il loto e s’infettino essi pure, ossia dimentichino il nóstos.

E l’Odissea, almeno per il momento, è assicurata: si può continuare a far ritorno.

 

 

Tuttavia, se ponessi l’accento solo su questo aspetto, vi farei un cattivo servizio perché l’Odissea – sarò fissata, ma ne sono altresì fieramente convinta – non ha come unico perno il tema del ritorno. Potremmo dire che il nóstos costituisce una sorta di lectio facilior del poema che rischia di mettere in ombra e di far dimenticare il tema più nascosto, ma, a mio avviso, ben più potente, del poema ossia il tema del kléos.

Che cos’è mai il kléos?

Ci sarebbe un modo per rendere in francese la parola greca kléos, che ha dentro il verbo kaléo: “chiamare per nome”. Ebbene, il vocabolo francese è: renommée ovvero la fama.

In italiano si potrebbe dire nomea, che però scarterei perché spesso è un termine non glorioso bensì spregiativo.

Perciò mi spiegherò meglio.

Il kléos, è quasi sempre – eccezione: Iliade II, 486 dove kléos sconfina con una chiacchiera confusa non ancora diventata poesia – la fama imperitura che viene assicurata agli eroi e alle eroine dei poemi omerici. Infatti è solo grazie al kléos che costoro “anche per il futuro saranno cantati dagli uomini a venire”, come spiega egregiamente Elena nel sesto libro dell’Iliade (vv. 357-358).

(Non è un caso che a questi pochissimi versi, di solito, si presti scarsissima attenzione e ci si soffermi a lungo sul patetico incontro tra Ettore, Adromaca e il figlioletto Astianatte <Il. VI, 394-494>. Potremmo dire che, specie nel sesto libro dell’Iliade, la retorica dell’amore per la famiglia e per la patria, parallelamente al tema del nóstos nell’Odissea, occulta il motivo del kléos).

Si tratta, invece, di un paio di versi mirabili che non mi stancherò mai di rileggere e far leggere e far conoscere, in cui la poesia epica riflette su se stessa, ossia sono versi dell’Iliade che spiegano il perché dell’Iliade stessa.

Ma non basta: con pochi tocchi, viene approntata una sorta di giustificazione estetica del dolore: gli dei danno ai mortali malasorte, ma questa garantisce loro anche una gloria (kléos) immortale.

A guardar bene, nei poemi omerici non emerge certo una visione “democratica” del kléos, bensì una “aristocratica” (Iliade, II, 459-464; 488-493).

Per capirci, non è sufficiente essere dei poveri sventurati per venir ricordati perché non saranno dimenticati solo coloro che meritarono d’esser ricordati, grazie a una qualche memorabile impresa o ad una loro caratteristica eccezionale.

E questo è il caso, ad esempio, di Elena: la più bella di tutte le donne mortali.

L’importanza del kléos è spiegata assai bene anche da Telemaco, il quale si rammarica, non solo e non tanto che suo padre sia morto, ma soprattutto perché teme abbia fatto una fine ingloriosa. Infatti, se Ulisse fosse caduto in guerra, lui, Telemaco, non ne sarebbe così straziato perché gli Achei avrebbero reso onore a suo padre e, di riflesso, anche a lui, che è suo figlio, ne sarebbe venuto del kléos (Od. I, 235-243).

E Telemaco non si dà pace che nessuna eco gloriosa del padre giunga fino a lui: sarà, allora, per recuperare la fama delle imprese paterne che si metterà in viaggio e si recherà nella reggia di Nestore e poi in quella di Menelao, dove, soprattutto in quest’ultima, verrà a conoscere storie memorabili su Ulisse (Od. IV, 240-288).

Il motivo del kléos è, inoltre, decisivo anche per marcare il fallimento della tentata seduzione di Calipso nei confronti di Ulisse. La Ninfa nascosta e nasconditrice – perché questo ci suggerisce il suo nome – trattiene Ulisse per ben otto anni nell’isola di Ogigia e le prova tutte per legarlo a sé: vuole farlo suo sposo e, essendo una dea, gli promette in dono l’immortalità.

Ora, il bello è che Ulisse non sa che farsene di questa vita senza la morte perché, in quell’isola sperduta, la sua fama resterebbe nascosta, infatti, separato da tutti, nessuno potrà più ricordare e cantare le sue imprese. Cosa che invece succede alla reggia dei Feaci, dove il cantore Demodoco celebra, mentre Ulisse è ancora vivo, la sua immensa astuzia ossia il celeberrimo inganno del cavallo (Od. VIII, 492-520).

Per cui vi suggerisco di interpretare sempre attraverso la prospettiva del kléos l’intera vicenda di Ulisse e di non lasciarvi obnubilare dalla solita storia del nóstos: della nostalgia della patria, della moglie, del figlio, del vecchio padre eccetera. Ovviamente, tale rimpianto esiste eccome, ma non basta di certo da solo a farci capire la ragion d’essere dell’Odissea. 

Scusate se son stata parecchio noiosa e fin troppo insistente nel battere e ribattere sul chiodo del kléos, ma è anche un mio modo per rendere omaggio a chi me ne ha fatto capire la crucialità: Françoise Frontisi-Ducroux e Jean-Pierre Vernant, senza i quali i poemi omerici sarebbero restati per sempre per me inespugnabili, anche se letti e riletti.

Inoltre, se non fossi ossessionata dal kléos, poco o nulla avrei capito delle Sirene, di cui vorrei ora parlarvi.

Ebbene, prima di farlo, non posso, almeno di volata, non accennare a due mirabili racconti che parlano delle Sirene: il primo è Il silenzio delle Sirene di Franz Kafka e il secondo è, a mio avviso, il più bel racconto di tutta la letteratura italiana del Novecento: La sirena di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

Tuttavia non posso soffermarmi su questi due racconti quanto meriterebbero, innanzitutto perché finirei per dilungarmi troppo e poi perché ci porterebbero fuori rotta, come le correnti di Capo Malea.

Il mare in cui vorrei che ci si muovesse è, infatti, quasi esclusivamente quello dei poemi omerici, che è già un pelago vastissimo.

Pertanto, mi limito a ricordare che Kafka opera una serie di variationes sul mito sirenico, ponendo l’accento sulle reciproche strategie messe in atto dalle terribili cantatrici e da Ulisse, reinventando, con geniale raffinatezza, le modalità di quel titanico duello.

Quanto, a Tomasi di Lampedusa, in gioco è un’immagine delle Sirene ben posteriore ai poemi omerici.

L’Odissea, infatti, ci dice poco o nulla sull’aspetto delle Sirene, ma intuiamo che forse si tratta di una sorta di uccelli carnivori, che divorano quelli che hanno irretito col loro canto. Nell’autore de Il Gattopardo, invece, come avviene poi in tradizioni posteriori all’Odissea, le Sirene sono esseri ibridi, per metà pesci e per metà donne, capaci di sedurre grazie ad un eros inquietante che è un mélange di animalità e di divinità. Inoltre, in Tomasi non si tratta soltanto di un amore incomparabile e incoercibile per tale mitico essere marino, perché, al contempo, la fascinazione passa attraverso il miraggio del risonare della lingua greca antica, di cui noi poveri moderni abbiamo perduto la voce vivente.

Ma basta così!  

Limitiamoci, perciò, alle Sirene così come vengono caratterizzate nel duodecimo dell’Odissea.

 

 

Due volte si parla delle canore incantatrici. Dapprima ne disquisisce Circe, fornendo ad Ulisse i celeberrimi espedienti dei tappi di cera, per i suoi compagni, e della fune per tenere stretto lui, qualora ne volesse udire il canto.

Pertanto che nel libro duodecimo abbiamo una sorta di “Sirene: istruzioni per l’uso” (Od. XII, 34-54) e, in seguito, la laconica cronaca di questo incontro (Od. XII, 158-200). Cronaca alquanto enigmatica perché non si narra esplicitamente che cosa le Sirene abbiano cantato. E su questo una miriade di poeti, di scrittori e di critici e, infine, di grecisti, hanno dato la stura alla loro immaginazione e alla loro erudizione, per secoli e secoli.

Ma andiamo lento pede.

Circe avverte, innanzitutto, che l’effetto del canto delle Sirene è quello di far dimenticare la moglie e i propri figli pargoletti, talché chi l’ha udito mai ha fatto ritorno a casa (Od. XII, 41-44). Ora, che il nóstos venga azzerato accomuna l’effetto del loto alle seduzioni delle Sirene.

Vi è poi un’altra coincidenza: in ambo i casi il rimedio messo in atto è quello di venir legati come salami. Solo che i drogati dai Lotofagi sono sbattuti senza tanti riguardi sotto-coperta, mentre al loro capo vien riservato un trattamento ben più dignitoso e coreografico: Ulisse sarà, infatti, legato all’albero della nave e, da questa posizione eretta e maestosa, lui dovrà resistere.

Nelle “istruzioni per l’uso” è compreso anche l’effetto deterrente, sempre illustrato da Circe, la quale avverte che le Sirene, non solo incantano le loro prede, ma anche le divorano riducendole ad avanzi rosicchiati e putrescenti (Od. XII, 46-47).

Ma questo è meno importante, ovvero lo è meno per noi che vorremmo cercar di penetrare il segreto dello charme del “limpido canto” delle Sirene.

Per tentare di capirne un po’ di più dobbiamo passare al secondo gruppo di versi: quello in cui è in gioco non un incontro generico con le Sirene, bensì proprio quello di Ulisse.

Si tratta di un incontro di breve durata perché solo per un tempo limitato la nave scivola rapida di fianco all’isoletta sirenica, anche se la velocità della navigazione è rallentata da un’insidiosa bonaccia (Od. X, 168-169), che rende piatta la superficie del mare. 

Né va trascurato un altro dettaglio: Circe aveva consigliato ad Ulisse di turare con la cera le orecchie dei compagni, ma forse la precauzione era inutile perché poi le cantatrici si rivolgono esclusivamente ad Ulisse. Forse perché le Sirene sapevano che solo lui poteva udirle.

O forse – la mia è un’ipotesi – il loro canto era fatto in modo che ciascuno udisse ciò che era in grado di stregarlo al sommo grado. Come era accaduto ai migliori tra gli Achei, chiusi nel ventre del cavallo di legno, quando avevano inteso la suadente voce di Elena chiamarli, ciascuno per nome. Ebbene, ognuno di loro crede di sentire il richiamo della propria sposa lontana, e, se vi avessero risposto, l’inganno del cavallo sarebbe stato smascherato e Troia non sarebbe caduta.

Chissà? Forse non è un caso che, quella volta, fu proprio Ulisse a sventare quell’insidiosa illusione acustica (Od. IV, 274-289), proprio lui che poi sarebbe stato lì lì per cedere al richiamo delle Sirene.

Insomma, non sappiamo che cosa i compagni, senza tappi alle orecchie, avrebbero udito, sforziamoci, piuttosto, di immaginare quello che avrebbe potuto far cedere Ulisse. E le Sirene, che sono dee, pure non ignorano il suo punctum minoris resistentiae.

Circe sta sulle generali e non ne accenna, ma poi vediamo che le Sirene, invece, sanno benissimo dove sferrare il loro colpo mortale… che mortale non diventa solo perché ci sono le funi a trattenere Ulisse e perché i suoi compagni erano stati preventivamente istruiti a non cedere alle sue mute suppliche di scioglierlo e, anzi, a legarlo ancor più stretto.

Così la nave non si ferma e, dopo poco, arriva là dove le Sirene non possono esser udite e cera e funi possono esser rimosse.

Ma riavvolgiamo la pellicola e torniamo ai brevi momenti dell’incontro.

Qual è il richiamo cui Ulisse non può resistere?

Lo si scopre da come le Sirene lo interpellano: “Orsù vieni, o Ulisse glorioso, grande vanto degli Achei!”.

Avete già capito: le Sirene fanno leva sul kléos, cui Ulisse tiene oltremodo.

E sanno di andare sul sicuro.

Voglio essere onesta e precisa: in questo verso (Od. XII, 184) non compare il termine kléos, ma il senso è proprio quello, e persino rinforzato.

Troviamo un’altra parola che qui ho tradotto, per approssimazione, con “glorioso”. Si tratta di polýainos: letteralmente “dai molti aînoi” in una doppia possibilità: “colui di cui parlano molti aînoi” ma anche: “colui che conosce molti aînoi”, laddove aînos indica il “racconto” (Od. XIV, 508). E, a voler essere ancora più precisi, aînos, a considerarne l’etimologia, è una “storia” in cui è contenuto un “lodare” (ainéo) e, perciò stesso, una storia che conferisce kléos.

Come volevasi dimostrare!

Lo so, mi state trovando maledettamente noiosa e pignola: ma lo vogliamo decrittare o no questo famigerato messaggio delle Sirene?

E non è mica finita: il verso 184 è, a sua volta, una citazione quasi pari pari di un verso dell’Iliade (IX, 673), anche in quel caso riferito ad Ulisse; così si rivolge a lui Agamennone, per sapere l’esito dell’ambasceria, peraltro fallita, di pacificazione nei confronti dell’irato Achille.

Ora, se esaminiamo il seguito del messaggio soavemente modulato dalla coppia di incantatrici – le Sirene, per la cronaca, sono solo due (Od. XII, 185) – si vede chiaramene che viene evocata la guerra di Troia (Od. XII, 189-190).

Ed è per questo che c’è stato chi ha potuto dire, come Florence Dupont, che le Sirene promettono a Ulisse l’Iliade.

Sempre tale studiosa, insiste sulla somiglianza tra le Muse e le Sirene dichiarando che quest’ultime sarebbero una sorta di Muse imperfette, che promettono una fama che poi non possono certo far durare, anche perché chi è divorato dalle Sirene non avrà domani.

Inoltre, aggiunge Dupont, l’evocazione delle imprese eroiche non avviene all’interno del rituale del banchetto, come accade per il canto dell’aedo Demodoco, alla reggia dei Feaci.

Ora, non è qui mia intenzione ribadire la centralità del simposio nel mondo greco arcaico e non solo arcaico: altri lo hanno fatto egregiamente e non vi aggiungerei nulla di pregevole.

Consideriamo, piuttosto, in che consistono le lusinghe delle Sirene: esse promettono godimento, attraverso il loro canto “di miele”, e contezza di tutto quello che successe e succede non soltanto nella piana di Troia, ma sulla terra tutta. Infatti l’arco temporale che le Sirene dicono di poter dominare e far conoscere riguarda sia il passato che il presente (Od. XII, 186-191).

Ora, se andiamo alla Teogonia (v. 38) di Esiodo, posteriore ai poemi omerici, scopriamo che le Muse sono in grado di dire: “ciò che è, ciò che sarà e ciò è stato”, ma, se ci limitiamo all’Iliade, osserviamo come il cantore le invochi per riuscire in un pezzo di bravura: l’impervio “catalogo delle navi” (Il. II, 484-759).

Ebbene, l’aedo, che celebra un passato epico, non avendo partecipato alla guerra di Troia, conta sulle Muse, che tutto sanno e che sono “sempre presenti” (Il. II, 484), per poter ricordare chi va ricordato. Ossia per poter mettere in atto quel rammemorare aristocratico-selettivo, di cui abbiamo già parlato.

Quanto all’Odissea, ci imbattiamo spesso nelle Muse, ma si glissa sulle tre dimensioni temporali.

Se vogliamo, invece, un assoluto dominio su tutto quanto il tempo dobbiamo ricorrere all’arte divinatoria: lo si vede ad esempio per Calcante, il quale “conosceva il presente, il futuro e il passato”. Ovvero dobbiamo andare al primo libro dell’Iliade (v. 70, verso che sarà poi ripreso da Esiodo, Th. 38). 

Sicché affermare che le Sirene conoscono solo il passato e il presente e le Muse ne sanno di più, estendendo il loro dominio anche sull’avvenire, potrebbe sembrare una forzatura.

Tuttavia, anche se non lo si dice expressis verbis, possiamo intuire lo stesso che il futuro per le Muse è in gioco già nei poemi omerici. Poiché, per nostra fortuna, ci vengono in soccorso quei versi, che già esaminammo (Il. VI, 358-359), in cui Elena si consola, e ci consola, ritenendosi sicura che gli dei ci danno la mala sorte ma, in compenso, saremo “cantati dagli uomini che verranno”. D’accordo, le Muse non son nominate esplicitamente, ma son loro e solo loro a sovraintendere al canto degli aedi.

Esemplari, infatti, sono le sciagure che colpiscono quei cantori che s’illudono di essere autosufficienti ossia di far a meno delle Muse (Il. II, 594-600).

 

 

Ma torniamo ad Ulisse e vediamo, ancora una volta, come egli sia spasmodicamente fanatico del kléos futuro, anche in circostanze che sconfinano con l’assurdo e persino con l’autolesionismo.

Tutti conoscono la vicenda dell’accecamento di Polifemo e tutti sanno come Ulisse lo ingannò dicendogli di chiamarsi Nessuno. Felice espediente che preserva Ulisse e i suoi compagni dalla vendetta degli altri Ciclopi. Questi giganteschi mostri, infatti, accorrono alle urla di Polifemo, ma non gli danno man forte quando costui dice loro che a fargli del male è stato Nessuno (Od. IX, 355-370; 399-412).

Ora, vi risparmio la nota storia dei vellosi montoni e del gigantesco ariete sotto il cui ventre Ulisse e i compagni s’aggrappano per poter uscire dall’antro, dove Polifemo li teneva prigionieri (Od. VIII, 425-435), così come sorvolo sugli enormi massi che il mostro lancia sulla nave, non riuscendo a colpirla, m’interessa, piuttosto, farvi notare un’incredibile bravata di Ulisse.

Una volta spinta la nave al largo, quando ormai è in salvo, Ulisse che fa? Comincia a urlare alla volta di Polifemo.

I compagni – in questo caso, ben più saggi di lui – lo supplicano di non esasperare quell’essere selvaggio, ma invano: Ulisse, costi quel che costi, va dritto per la sua strada e comincia ad apostrofare beffardamente il Ciclope.

Ulisse proprio non ce la fa a stare zitto perché vuole che Polifemo sappia che ad accecarlo non è stato Nessuno, un “senza nome”, bensì lui, Ulisse, “distruttore di città, il figlio di Laerte che ha dimora ad Itaca” (Od. IX, 491-505).

E vuole che Polifemo lo sappia per poterlo ridire (in futuro) “a qualche uomo mortale” (Od. IX, 502).

Ora, tutto ciò è oltremodo assurdo perché i violenti Ciclopi formano una società tribale, estremamente chiusa, al punto che non conoscono nemmeno assemblee comuni, né istituzioni poste dagli dei, nemmeno le varie famiglie comunicano tra di loro, ma ciascun capofamiglia fa legge a sé per i propri figli per le sue donne. Insomma, i Ciclopi vivono in un mondo a parte che non comunica affatto con quello a loro esterno (Od. IX, 105-115).

Dal che ne arguiamo che, se mai qualche malcapitato straniero giungesse da quelle parti, verrebbe subito sbranato e di certo non potrebbe poi andare in giro a raccontare le prodezze di Ulisse.

Tutto ciò è anche decisamente autolesionistico al sommo grado perché Polifemo è figlio di Poseidone, il temibile dio “Scuotiterra”, capace di scatenare tremende tempeste avverse ad Ulisse, come poi puntualmente farà e continuerà a fare, dopo la terribile maledizione che Polifemo gli lancia invocando suo padre.

E la maledizione è tanto più forte perché legata al nome di Ulisse, finalmente reso manifesto (Od. IX, 528-535).

Si tratta di una maledizione davvero terribile e assai articolata poiché Polifemo augura ad Ulisse di perdere tutti i suoi compagni, di giungere in patria tardivamente, a bordo di una nave straniera – sarà quella dei Feaci – e di trovare a casa molte disgrazie (Od. IX, 528-535).

Questo malaugurio si avvererà punto per punto: capite, allora, che, per inseguire un kléos più che improbabile, Ulisse è disposto a sacrificare anche tutti i suoi compagni, che dice di amare tanto!

Insomma, a questo punto, vi sarà chiaro il ruolo imprescindibile del kléos.

Ma basta così con le Sirene! E anche con Polifemo.

 

 

Voglio tornare al titolo di questo scritto, che sinora rischia di restare disatteso, perché non è ancora emerso, se non debolmente, il filo rosso che lega i Lotofagi alle Sirene. Certo, si è mostrato che sia i Lotofagi che le Sirene provocano l’oblio del nóstos ma, dopo tutto il mio martellare sul kléos, vi starete chiedendo se il motivo della fama sia rintracciabile anche nella scena dei mangiatori di loto.

Abbiate fede.

Credevo di conoscere molto bene il breve episodio dove s’incontrano i drogati dell’Odissea, invece non era così. M’era sfuggito un particolare, solo apparentemente secondario, che sta racchiuso nel verso 97, del nono libro.

I tre compagni di Ulisse, mandati in avanscoperta, una volta assaggiato quell’oblioso frutto-fiore, non solo non avevano più nessuna voglia di tornare – e questo già lo si era sottolineato – ma nemmeno – aprite bene le orecchie! – volevano “annunciare” quello di cui avevano fatto esperienza.

Erano stati mandati in esplorazione perché riferissero se gli uomini di quell’isola “mangiavano pane” (Od. IX, 89), il che significa, e lo scopriamo grazie al perspicuo commento di Jean-Pierre Vernant, se quegli isolani fossero timorosi degli dei e rispettassero gli ospiti.

Ma ben altre, lo sappiamo, erano le consuetudini alimentari dei Lotofagi, che li situavano fuori, lo dico tra molte virgolette, “dalla civiltà” e li rendevano, pur se non-violenti, altrettanto pericolosi dei bestiali Ciclopi antropofagi, che Ulisse incontrerà subito dopo. 

Ebbene, nel fatto che i novelli tossici perdessero il desiderio di “annunciare” equivale a dire che il lotós ha l’effetto di soffocare sul nascere il raccontare.

Ma il racconto deve poter continuare!

D’altro canto, c’è chi, come Maurice Blanchot, occupato com’è a deprecare come “vigliacco” l’atteggiamento che Ulisse tenne nei confronti delle Sirene, sembra stimare assai poco il racconto.

Ma adesso domandiamoci, che ne sarebbe di noi, anticamente pubblico di un cantore e ora, ormai da molto tempo, lettori, che ne sarebbe di noi senza l’Odissea?

Che ne sarebbe di noi, senza la narrazione delle avventure di Ulisse?

Siamo così sicuri che, senza l’Odissea, sarebbero potuti esistere tutti quei romanzi che tanto ci deliziano e, in qualche modo, ci stanno sostenendo?

Insomma, senza l’Odissea, che ne sarebbe stato di noi che – ma sì diciamolo una buona volta! – siamo dei drogati della lettura?

Semplicemente smetteremmo di esistere: ci dissolveremmo come neve al sole… forse esagero, ma è quello che penso con tutto il mio essere.  

Scusate lo sfogo, ma sono tempi bui e, senza l’Odissea, ma anche senza un bel libro che ci faccia viaggiare con la phantasía – dato che tutti i libri che ci piacciono son pronipoti dell’Odissea – davvero non oso pensare che ne sarebbe di noi…

Ma torniamo alle avventure ulissiche, che sono avventure dal Nostro vissute in vista di poterle poi raccontare: possiamo dire che Ulisse, cui le Sirene promettono l’Iliade, che è soltanto il passato, già è tutto proteso ad acquistare kléos futuro.

Ulisse, insomma, vive già pensando all’Odissea, in cui gli incontri con i Lotofagi, coi Ciclopi, con Circe e con le stesse Sirene diverranno altrettanti episodi.

E questo – lo ripeto – con buona pace del naso arricciato di Maurice Blanchot (cfr. Notarelle).

Ebbene, forse non tutti si sono accorti che, all’interno del poema, Ulisse è molto consapevole della sua funzione di narratore.

Innanzi tutto perché racconta le sue avventure per ben tre volte.

La prima volta narra quello che gli è capitato ad Eolo (Od. X, 1-15), il signore dei venti che, nella sua isola galleggiante, regna su una società felice e iperpatriarcale, formata esclusivamente dai suoi figli e dalle sue figlie, uniti (incestuosamente) in matrimonio, gli uni con le altre.

Ovviamente, Ulisse ad Eolo può narrare un’Odissea ancora parziale. Ossia, solo quello che gli è capitato sino a quel momento. Comincia dalla guerra di Troia e, intuiamo, racconta anche dei Ciconi – popolazione che subì le sue razzie e vi si ribellò (Od. IX, 39-61), prima del funesto Capo Malea – e poi dei Lotofagi e dei Ciclopi.

La seconda volta in cui Ulisse narra è quella più nota: ossia il lungo flash-back che occupa i libri nono, decimo, undecimo e dodicesimo. Narrazione che si svolge presso la reggia dei Feaci. E qui Ulisse racconta, nell’ordine, dei Ciconi, dei Lotofagi, dei Ciclopi, di Eolo, dei Lestrigoni, di Circe, della discesa nell’Ade, delle Sirene, di Scilla e Cariddi e dell’isola di Trinacria, dove pascolano le mandrie del Sole e, infine, di Calipso.

La terza volta Ulisse racconta tutto a Penelope, dopo che i Proci son stati sterminati e i due sposi si son finalmente ricongiunti nell’antico letto nuziale. Ulisse incomincia dai Ciconi e arriva fino ai Feaci (Od. XXIII, 310-341).

Intuiamo che quel terzo racconto fu fatto con estrema maestria perché Penelope, pur provata dalle molte emozioni di una giornata decisamente movimentata, “godeva” ascoltando Ulisse e “il sonno non le cadeva sulle palpebre fino a quando ogni cosa non fu narrata” (Od. XIII, 308-309).

Ora, avviandomi alfine alla conclusione, vorrei farvi notare come Ulisse, che è l’io-narrante di questi quattro splendidi libri dell’Odissea, diviene anche il sosia del cantore – o dei cantori: lungi da me la questione omerica! – che compose l’Odissea.

La prova la troviamo poco prima che la grande narrazione abbia inizio.

Ulisse ha pianto (Od. VIII, 521-531) mentre Demodoco raccontava, peraltro per desiderio di Ulisse, l’inganno del cavallo (Od. VIII, 492-520). Al che, noi arguiamo che Ulisse – scusatemi se sono ripetitiva ed insistente – è ognora proteso verso il futuro e, perciò, ci tiene parecchio a verificare se il suo kléos di uomo accortissimo sia già diventato materia di canto.  

Solo Alcinoo, il re dei Feaci, s’era accorto che Ulisse, che pure cercava di non dare nell’occhio, aveva pianto e, da ottimo padrone di casa qual è, ha fatto smettere il cantore (Od. VIII, 535-542).

A questo punto, Ulisse è smascherato: non può più mantenere il suo incognito e deve dire chi è, inoltre, sempre su richiesta di Alcinoo, è tenuto a raccontare se ha partecipato alla guerra di Troia e se vi ha perduto delle persone care.

Vi ricordate dei due versi notevolissimi in cui Elena spiega la poetica dell’Iliade (VI, 357-358), su cui ho tanto insistito?

Ebbene, anche Alcinoo se ne esce in un’affermazione simile: dice che gli dei decisero la morte di (tanti) che combatterono a Troia “perché fossero cantati in futuro” (Od. VIII, 580).

Nella reazione di Ulisse alle richieste di Alcinoo, anche in questo caso, ci imbattiamo in una colossale lectio facilior, destinata a diventare addirittura “un classico”: Ulisse si mostra riottoso a raccontare le sue passate traversie perché, rievocandole, avrebbe sofferto ancor di più (Od. IX, 12-15).

Come non pensare, allora, a quei versi celeberrimi dell’Eneide (II, 3), che gli sventurati scolari della mia generazione eran condannati a recitare, in una metrica spesso zoppicante ed improbabile: “Infandúm, regina, iubés, renovare dolorem eccetera”.

(In quest’ultimo caso, è Enea ad essere recalcitrante alle richieste di Didone di narrare la caduta di Troia e la fuga dalla città in fiamme. Sorvolo poi su Dante, ossia sul lamento del conte Ugolino: “tu vuoi ch’io rinovelli\disperato dolor che ‘l cuor mi preme”, Inferno, XXXIII, 4-5).

Tali rievocazioni omerico-virgiliane, non debbono, però, farci trascurare un verso capitale (Od. IX, 14), che molto spesso passa inosservato. Ulisse si riferisce alle sue dolorose sventure e, come tra sé e sé, annota: “quale narrerò per prima e quale per ultima?”.

Riflettiamo.

Ora, la sequenza temporale delle avventure narrate rimane sempre identica nei tre racconti (ad Eolo, ai Feaci e a Penelope), di cui vi ho appena detto. E allora perché Ulisse si interroga su possibili arrocchi o montaggi che possano alterare l’ordine di questo raccontare?

Provate a pensarci.

Io dal canto mio, mi ci sono spremuta le meningi fino a procurarmi una tremenda emicrania e sono venuta a questa conclusione.
Mi è parso che qui non sia in gioco tanto la sequenza degli episodi del racconto quanto la struttura, tutt’altro che lineare, con cui è costruita l’intera Odissea.

Il poema, infatti, comincia quando Ulisse è da ben otto anni prigioniero nell’isola di Calipso e Atena, che è la divinità a cui il Nostro sta maggiormente a cuore, interviene presso suo padre Zeus perché Ulisse possa finalmente tornarsene ad Itaca. Anche in barba all’ira di Poseidone. Segue l’ambasceria di Hermes perché la Ninfa di Ogigia lasci partire Ulisse, la costruzione della zattera, la tempesta, il naufragio e l’approdo all’isola dei Feaci.

Il tutto inframezzato da scene ad Itaca e dalla partenza di Telemaco, il soggiorno del ragazzo a Pilo (reggia di Nestore) e a Lacedemone (Sparta: la reggia di Menelao ed Elena) alla ricerca del padre, sulle tracce della sua fama.

La reggia dei Feaci fa poi da scena per quello che il cantore, genialmente, colloca nel flash-back, ossia i libri dal nono al dodicesimo, più propriamente occupati dal viaggio di Ulisse.

Il verso 14 del canto nono funge, perciò, da “manifesto programmatico” su come è organizzata l’intera Odissea.

E va bene, mi direte, e questo che c’entra col kléos?

Beh, se non son riuscita a farvi capire che il kléos, non solo è la motivazione del racconto, ma pure illustra, come già nell’Iliade, l’intera ragion d’essere dell’Odissea, la sua poetica, le sue leggi di costituzione, che ne consacrano la sua fama dopo quasi tre millenni…. beh vorrà dire che….

No, non ci voglio nemmeno pensare perché spero, invece, di avervi fatto apprezzare ancora di più il fascino imperituro delle avventure di Ulisse.

E di esservi stata anche di sostegno in questi tempi bui, in cui non possiamo viaggiare. 

 

Notarelle

Perché vi facciate un’idea delle mie peregrinazioni omeriche, sempre con l’Odissea nello zaino, rimando a tre réportages di viaggio (presenti in questo sito), che riguardano, rispettivamente, il Peloponneso, Creta e l’isola di Ulisse; insomma, se ne siete curiosi, cliccate su:  

Patrasso solo andata

Perché parlar male dei Cretesi?

Verso Itaca

Per la feconda ambivalenza del termine greco phármakon non posso non ricordare il mirabile e intramontabile saggio di Jacques Derrida, La pharmacie de Platon (edizione originale 1968; La farmacia di Platone, Introduzione di Silvano Petrosino, Milano, Jaca Book, 1985 e poi 2015).

Ecco gli studi che mi hanno maggiormente sensibilizzato al tema del kléos: Françoise Frontisi-Ducroux, La cithare d’Achille. Une poétique de l’Iliade, (“Quaderni Urbinati di Cultura Classica”), Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1986; Françoise Frontisi-Ducroux e Jean-Pierre Vernant, Dans l’œil du miroir (ed. or. 1997; Ulisse e lo specchio. Il femminile e la rappresentazione di sé nella Grecia antica, trad. it. Claudio Donzelli, Roma, Donzelli, 2003; grazie a quest’ultimo studio ho anche compreso appieno la carica emblematica di “doppiare il capo Malea”).

Per una bella panoramica, tra tante altre illuminanti annotazioni, su vari artisti e critici, che hanno trattato delle Sirene, rimando ad un grecista di vaglia: Giuseppe Pucci, Le Sirene tra canto e silenzio: da Omero a John Cage, “ClassicoContemporaneo”, 0 (2014), pp. 80-97; reperibile on line.

Interessante per quanto irritante e superato, come ogni studio che voglia attualizzare troppo e che, così, si condanna a divenire datato prestissimo, cfr. Florence Dupont, Homère et Dallas (ed. or. 1991; Omero e Dallas. Narrazione e convivialità dal canto epico alla soap-opera, trad. it. di Maria Baiocchi, Roma, Donzelli, 1993).

Per una sfiziosa indagine, anche grazie a pitture fittili, sul banchetto greco, cfr. François Lissarague, Un flot d’images: une esthétique du banquet grec, ed. or. 1987; L’immaginario del simposio greco, trad. it. di Maria Paola Guidobaldi, Bari, Laterza, 1989.

Un lungo discorso a parte meriterebbe l’inizio de Le livre à venir (ed. or. 1959; Il libro a venire, trad. it. di Guido Ceronetti e Guido Neri, Torino, Einaudi, 1969, Milano, Il Saggiatore, 2019), le cui pagine iniziali s’intitolano, appunto, Le chant des Sirènes. Qui Ulisse vi fa la figura dell’eroe vigliacco e mediocre che si difende dal “canto inumano” delle Sirene, laddove tale cantare fa tutt’uno con l’origine stessa della poesia. Si scade così, sempre secondo Blanchot, dall’ “ode” all’ “episodio”, ossia al “racconto” e l’Odissea diviene una narrazione non più rischiosa ma, piuttosto, “la tomba” delle Sirene.

Ora, si tratta di pagine di indubbio charme, che mi affascinarono parecchio nei miei verd’anni, ma che ora, inoltrata come sono nelle lande di una felice vecchiezza, resa meno acerba dalla compagnia, sempre nuova, dell’Odissea, mi lasciano assai più fredda.

D’altro canto, appare chiaro che a Blanchot interessano molto di più Proust e Rilke o Breton che non comprendere il più possibile la ragion d’essere dei poemi omerici – non a caso, non dice manco mezza parola sul tema del kléos – e questo non gli può essere imputato. Scherzando, dico soltanto: de gustibus!