La sedia a rotelle

Si scoprì a guardare un attrezzo che lo aveva profondamente umiliato. E che ora campeggiava, in disuso, nel suo angusto miniappartamento.

La sedia a rotelle.

Sì, la sedia a rotelle, cui s’era dovuto adattare prima di una complicata operazione alla spina dorsale; una funesta cisti sinoviale che gli aveva paralizzato, all’improvviso, una gamba, riempiendolo di dolori atroci.

Dopo l’intervento, era passato al bastone ma gli era chiaro che sarebbero trascorse ere geologiche prima di poter camminare per più di un quarto d’ora al giorno, senza traballare. E senza poi pagarlo con fitte insidiose.

Si costrinse a pensare ad altro e non tanto ai viaggi che aveva fatto, alle lunghe camminate quotidiane o alle nuotate in piscina che si concedeva spesso.

Simili ricordi non avrebbero fatto altro che riempirlo di rimpianti, evocando il tempo beato in cui poteva ancora contare sulla saldezza delle sue gambe.

Si mise, allora, a cercare di concentrarsi su un passo di Erodoto*. Il protagonista era Serse, il re persiano che, memore delle imprese del padre Dario, s’era proposto di invadere e sconfiggere la Grecia.

Ricordava come costui aveva varcato l’Ellesponto.

Insomma, l’attuale stretto dei Dardanelli.

Ma questo non fece che far riemergere il ricordo d’un suo remoto viaggio in Turchia, fatto poco dopo essersi laureato.

Ci era andato con altri otto amici, distribuiti in tre malandatissime auto di famiglia che poi avevano avuto vari guasti.

A quell’epoca, era invaghito di una ragazza del gruppo, una certa Poldina, che nemmeno s’era accorta che lui le faceva corte. O, forse, se ne era accorta e faceva finta di nulla.

Nella tratta di ritorno, giunti allo stretto dei Dardanelli, erano saliti su di un rustico traghetto, col ponte pieno zeppo di pecore.

Lui e i suoi amici erano gli unici passeggeri che non fossero turchi.

Poldina che indossava audacemente degli shorts – erano tempi d’oro in cui l’integralismo islamico quasi non esisteva e la Turchia era ancora laica – era stata avvicinata da un marinaio grassissimo. Costui le aveva fatto capire, con una mimica buffonesca e con qualche parola in un francese improbabile, che il capitano desiderava ricevere “madame” nella cabina di guida.

Poldina era combattuta tra una cocente curiosità e un residuo di cautela. E così aveva chiesto se poteva essere accompagnata da uno dei suoi amici indicando lui come scorta. Ovviamente, la cosa lo aveva molto lusingato. Invece, il marinaio aveva scosso la testa facendo capire che la ragazza dal capitano ci sarebbe dovuta andare da sola.

Poldina, allora, aveva detto agli altri di venire a recuperarla, solo se non fosse tornata dopo dieci minuti.

Dieci minuti! Sarebbe potuto succedere di tutto in quel lasso di tempo, rifletté lui.

Soprattutto, aveva pensato che lei era una pazza furiosa e, contemporaneamente, gli era stato chiaro perché con lei non avesse speranza: lui era troppo prudente e circospetto, insomma, al posto della ragazza, mai e poi mai avrebbe accettato una proposta del genere.

Probabilmente lei l’aveva intuito e, quindi, lo disprezzava.

Poldina era tornata illesa e gasatissima, raccontando che il giovane capitano aveva un certo fascino coronato da un baffo guascone.

Il turco era stato molto rispettoso ma anche molto galante: senza mai sfiorarla, le aveva fatto tenere il timone mentre lo scafo scivolava agile e veloce sulle insidiose acque dei Dardanelli. Insomma, era stato un suo modo squisito di renderle omaggio regalandole un’emozione che, sapeva, lei non avrebbe più scordato.

Al che, lui era stato sopraffatto da un’ondata di acerba gelosia che, dopo decenni, ancora lo torturava.

Perciò, s’impose di non pensare più a quel viaggio lontano e concentrarsi, piuttosto, su Serse prima che oltrepassasse l’Ellesponto.

Si ricordava che superare lo stretto non era stata un’impresa facile. All’inizio, i leggeri ponti approntati per permettere all’esercito persiano di passare dall’Asia all’Europa vennero spazzati via da una tempesta (§ 34).

La reazione di Serse era stata violentissima: non solo aveva fatto tagliare la testa a coloro che sovraintendevano la costruzione dei ponti ma si era anche scatenato contro l’Ellesponto. Aveva fatto nientemeno percuotere le acque dello stretto con trecento colpi di sferza, aveva fatto gettare in mare un paio di ceppi e, non contento, aveva fatto marchiare il mare medesimo, come si bollano gli schiavi. Chi eseguiva i suoi ordini aveva inoltre pronunciato per conto del Gran Re delle parole “barbare e insensate” (così Erodoto). Insomma, Serse rimproverava quella “acqua amara” di averlo oltraggiato senza che lui l’avesse offesa e dichiarava che avrebbe passato l’Ellesponto che a quest’ultimo piacesse o no. E, come sfregio finale, sminuì quel braccio di mare definendolo un “fiume torbido e salmastro” (§§ 34-35).

Lui aveva sempre ammirato la furia del re persiano, anche se sapeva che simili manifestazioni di smodata tracotanza non potevano che finir male.

Gli dei prima o poi gliela avrebbero fatta pagare.

Salamina già aspettava al varco Serse.

Ma, intanto, Serse s’era sfogato alla grande.

Non poté non confrontarsi con il grande e bellissimo (§ 187) sovrano e sentirsi non solo piccolo piccolo ma soprattutto insignificante, impotente e infingardo.

Tale episodio raccontato spendidamente da Erodoto, rifletté, non era che un grande sberleffo rispetto a come si sarebbe comportato lui circa venticinque secoli dopo, proprio nel medesimo luogo leggendario: i Dardanelli.

Poldina aveva attraversato impavida e vittoriosa lo stretto grazie a quel suo detestabile turco dal baffetto conquistatore e lui che cosa aveva fatto?

Lui l’Ellesponto non lo avrebbe varcato mai.

Non solo aveva sofferto in silenzio, in un angolo, un’onta che mai si sarebbe cancellata, ma, da quel momento, aveva rinunciato a Poldina.

Finito il viaggio, infatti, non la cercò più, rimpiangendola poi per il resto della vita.

E ora, anche se non voleva, non poté non rivedere, come in un filmino muto dai movimenti accelerati, tutti i suoi insuccessi amorosi che si erano succeduti implacabilmente da quel lontano viaggio in Turchia.

Nel frattempo, erano passati più di cinquant’anni.

Sospirò e, per cercare di distrarsi, andò in cerca del volume di Erodoto perché ricordava vagamente che c’era dell’altro.

S’arrampicò con fatica su di una scaletta e, a rischio di cadere rovinosamente, tirò giù il libro incriminato.

Rilesse così il seguito della storia.

Prima di passare l’Ellesponto, questa volta reso superabile da un robusto ponte di barche, Serse volle contemplare tutto il suo sterminato esercito. Le sue variegate truppe, composte da un cospicuo numero di popoli assai differenti, ci avrebbero messo poi ben sette giorni e sette notti di marcia forzata per superare lo stretto (§ 55).

Il Persiano salì allora su di un’altura e si sedette su di un bel trono di marmo bianco.

Guardando tutto l’Ellesponto, ricoperto dalle sue navi e tutta la costa traboccante di uomini, si sentì beato come un dio, ma poi scoppiò a piangere.

E non erano certo lacrime di felicità, perché, interrogato dallo zio Artabano, rispose che si era reso conto di quanto fosse breve la vita umana dato che nessuno di quella immensa moltitudine sarebbe stato vivo tra cento anni. E, sottinteso, nemmeno lui (§§ 44-46).

Gigantesco Serse! Lui che aveva intuito la caducità di ogni umana avventura, la vanitas vanitatum di ogni cosa e l’aveva capito forse prima del biblico Ecclesiaste o, al più, contemporaneamente.

Questa irrimediabile e “infinta vanità del tutto”**, anziché deprimerlo, finì per essergli di sollievo. Tra lui e il magnifico e celeberrimo Persiano sentì emergere, a dispetto della sua vita piena di ingloriose, piccole sconfitte, un’aria di famiglia.

Fu allora che si guardò intorno per la sua stanzetta e il suo sguardo cadde fatalmente sulla sedia a rotelle.

No, non era regale come il candido trono di marmo di Serse ma aveva nondimeno un suo fascino.

Vi si sedette trovandola più comoda della sua vetusta poltrona e assai più confortevole di ogni altro sedile sparso nel suo piccolo appartamento.

Perché desiderare di andarsene di là?

* Tutti i passi di Erodoto, citati più o meno direttamente, son tratti dal settimo libro delle sue Storie. Ovviamente, lo charme del personaggio Serse è dovuto alla maestria del grande Erodoto. Se leggiamo, invece, I Persiani di Eschilo che possono anche essere visti come una fonte possibile di questi episodi erodotei, troviamo un Serse che in parte si comporta come quello di Erodoto, ma che risulta assai più scialbo e piatto di quello descritto nelle Storie.

Chi poi fosse curioso di saperne di più su di un tema tipicamente erodoteo, ma già presente in Eschilo, ossia l’invidia degli dei, può cliccare su agonalità. Si tratta di un paragrafo tratto da una trascrizione di un ciclo di lezioni che tenni nella primavera del 2017 presso l’Università di Trieste, dedicato al tema della agonalità in Grecia.

** Allusione all’ultimo verso del leopardiano A se stesso.

Postilla

Aristotele rimprovera Erodoto di non essere “filosofico” perché enumera fatti e parla solo di qualcosa di particolare, ovvero non composto come un tutto e che non vale in generale (Poetica 51 b 5-11). Tale accusa, a mio modesto avviso, è mal posta perché non ha senso pretendere una struttura unitaria come quella di una tragedia, che va abbracciata con un solo “colpo d’occhio” (P. 59 a 33), in un’opera di ampio respiro come le Storie. E non ha nemmeno senso sostenere che Erodoto fa una pura cronaca dei fatti, visto che sicuramente opera una selezione. Quanto al suo limitarsi al particolare, ebbene, dopo quello che avete appena letto, spero sarete d’accordo con me che il pianto dirotto di Serse sull’umana caducità è, invece, quanto di più universale esista.