11. La città guerresca: Areópoli

Per arrivare ad Areópoli (una trentina circa di kilometri più a sud di Kardamýli, sempre nella costa occidentale del Mani) Fermor, prende un caicco, ossia vi arriva via mare tramite un battello, carico di passeggeri e di merci locali. Io, invece, mi dovetti accontentare di un prosaico taxi, perché la situazione dei bus, come vi accennai, era davvero problematica.

Ero molto incuriosita da questa località, di cui Fermor non racconta granché, occupato com’è a rendere edotti suoi lettori delle lotte e delle beghe politiche che portarono dall’insurrezione contro il dominio turco all’indipendenza greca, insurrezione che cominciò proprio qui nel 1821. E questa località, che aveva un altro nome antico (Tsimova), fu ribattezzata Aerópoli, ovvero città di Ares, dio della guerra, proprio grazie al suo indomito spirito guerresco. Ma dell’indipendenza greca vi parlerò ancora quando narrerò di Nauplia.

Per il momento, vi voglio raccontare un’avventura che poteva finire davvero molto male per me.

Dopo aver amabilmente chiacchierato col taxista, fui da costui depositata nel piazzale della stazione d’autobus di Aerópoli, lasciai in consegna i miei bagagli presso un gentile bigliettaio, m’informai quando partiva il prossimo bus per Gheroliménas (molto più a sud) e, constatato che disponevo di tre ore abbondanti per visitare il paese, mi accinsi a farlo.

Lo sthasmós ton leoforíon (così si chiama in neogreco la stazione d’autobus) si trovava abbastanza fuori rispetto al centro e qui commisi un errore clamoroso. Vidi un borgo antico, con tanto di chiesa e case di sasso, sulla prora di un vicino monte e mi ci avviai baldanzosa, ignorando che mi stavo muovendo, invece, nella direzione opposta a quella che avrei dovuto prendere.

Dopo qualche centinaio di metri, mi accorsi che la strada da asfaltata si stava trasformando in una carrareccia, capii che avevo preso un granchio e mi accinsi a tornare indietro.

E qui, all’improvviso, sbucò dal nulla il cane il più aggressivo che avessi mai visto in vita mia: abbaiava molto rabbiosamente e con grande strepito, aveva il pelo irto irto e mi si avvicinava mostrando tutti i suoi denti. E non era nemmeno un cagnetto.

Dovete sapere che non solo amo molto gli animali, ma che in particolare ho un debole per i cani, di cui non ho mai timore, ma questo era davvero cattivissimo e armato delle peggiori intenzioni.

Tuttavia, non mi persi d’animo e, intuendo che non bisognava assolutamente che mostrassi la mia paura, lo fronteggiai, battendo alternativamente le mani e il mio bastone per terra – ero già tornata nella zona semi asfaltata – e, senza darmi alla fuga, per non eccitare la belva, ero, in qualche modo, riuscita a ristabilire le distanze.

Stavo lentamente riguadagnando terreno, sempre retrocedendo, però senza mostrar le terga alla bestiaccia, quando, dietro alle mie spalle, sentii uno scoppio plurivoco di abbaii furiosi in risposta al mio primo assalitore. Mi volsi di scatto e vidi ben tre cagnacci luridi e di grossa taglia. Al che, così circondata, con ogni via di salvezza tagliata, mi sentii perduta. E già m’immaginavo il mio viaggio compromesso irrimediabilmente per le molte ferite e i morsi che avrei riportato, ammesso che ne fossi uscita viva.

Inoltre, chi poteva escludere che non si trattasse dell’ennesimo colpo basso dell’invidia degli dei?

Orripilata da simili visioni e da simili pensieri, mi mostrai molto più risoluta di quanto non mi sentissi in cuor mio, e cominciai a battere le mani e il bastone sempre più forte in direzione ora di quello che mi stava davanti, ora volgendomi repentina all’indietro. E, così facendo, notai che, per fortuna, i tre cani sopraggiunti erano solo dei gregari rispetto al primo e, perciò, molto meno risoluti. Allora, mi rivolsi ai tre e, d’istinto, urlai in tedesco, con una voce imperiosa che non mi conoscevo: “Rausss!” e quelli, miracolosamente, si diedero alla fuga.

Questo smontò la furia anche del primo cane che retrocesse a sua volta, non smettendo di abbaiare, ma sempre meno convinto. Nel frattempo, ero riuscita a riguadagnare il piazzale della stazione e m’infilai velocissima nell’unico bar disponibile. Una volta in salvo, mi venne fuori tutto il terrore represso e non riuscivo a smettere di tremare.

Però mi veniva anche da ridere – d’accordo, era un riso un po’ nervoso – pensando che Areópoli non s’era smentita, che avevo appena sostenuto una battaglia e che ne ero uscita bene proprio perché non m’ero mostrata imbelle.  

Una volta tornata un po’ più calma, presi la direzione opposta e, dopo pochi minuti, abbandonate le case di periferia, mi trovai in un centro abitato incantevole, tutto lastricato e pieno di torri, una più bella dell’altra. Un vero museo a cielo aperto. Ovunque c’erano chiesette come questa.

E, se vi si entrava, ci s’imbatteva in antichi affreschi bizantini, per non parlare degli arcaici bassorilievi, sopra i portali.

Quanto alle torri, ecco due esempi.

Nel centro storico, dove i turisti erano ancora radi e molto discreti, gironzolavano vari cani randagi, di cui, come mi resi poi conto, tutto il Mani è pieno, ma qui e anche altrove erano pacifici. Ve ne faccio vedere uno che mi si avvicinò senza nessunissima cattiva intenzione, come a chiedermi scusa, facendomi intendere che lui, e tutti i suoi “colleghi” che popolavano i centri storici, niente avevano a che spartire con quei banditi campagnoli. 

Quanto ad una caratteristica del Mani, ossia la presenza ossessiva di torri e torrette, sempre Fermor ci spiega che i Manioti – ossia gli abitanti di questa penisola – erano convinti di essere discendenti degli antichi Spartani e che si erano rifugiati qui, ossia oltre l’invalicabile Taighétos, fin dai tempi dell’invasione dei Visigoti (fine del IV secolo) e anche dopo per sfuggire a popolazioni slave nel Peloponneso centrale. In seguito, i Manioti avevano sempre strenuamente respinto tutti coloro che li attaccavano, dai Franchi, ai Turchi, che non riuscirono mai a dominarli.

Tanto valore guerresco però si era riverberato anche in feroci lotte intestine, al punto che, persino all’intero di un insediamento minuscolo, vari clan si combattevano ininterrottamente tra di loro. Le torri, perciò, sorsero ovunque come funghi perché erano intese come fortilizi da cui le fazioni rivali si attaccavano e, coll’avvento della polvere da sparo, sempre più ferocemente si sparavano e si cannoneggiavano . 

Insomma, alla nascita del nuovo stato indipendente greco, il primo re di Grecia, Ottone di Baviera (1815-1867, regno: 1832-1862), ebbe il suo bel da fare per mettere fuori legge e soffocare questa tendenze ferocemente fratricide. E lo fece anche proibendo l’edificazione di nuove torri.

12. Gheroliménas ovvero la pace

Scesa dal bus a Gheroliménas, ero un poco perplessa perché la mia guida Routard – di cui, per motivi di peso, avevo con me solo qualche pagina strappata e che, di solito, è attendibile – non era affatto indulgente con questa località. Ad esempio, avvertiva che la spiaggetta di ciottoli era sporca, che l’acqua non era bella, che i proprietari dell’albergo erano poco accoglienti e scorbutici, i prezzi esosi e via di questo passo. Insomma, chi decideva di soggiornarvi doveva farlo a proprio rischio e pericolo.

Tuttavia, non ero affatto disposta a farmi scoraggiare da simili terroristici proclami, tanto più che la tappa a Gheroliménas era per me fondamentale per un paio di motivi.

Il primo è che quello era il punto più a sud del Mani che potessi raggiugere con un mezzo pubblico, il secondo che contavo di fare tappa là un paio di giorni per poter raggiungere in qualche modo la punta estrema della penisola. Ma andiamo per ordine.

Scesa dal bus, mi trovai sul retro di un edificio che identificai come un hotel, entrai per una porta, seguii l’indicazione di salire su per delle scalette, finii in un corridoio su cui si affacciavano varie stanze, non incontrai anima viva, ritentai, allora, da un’altra porta a piano terra e mi trovai in una sala ristorante. Là mi si fece incontro il proprietario, sottolineo cordialissimo, che mi offrì la scelta di varie soluzioni. Io scelsi, per un prezzo assai ragionevole, una camera, giusto due piani sopra alla terrasse dell’estiatorio (il ristorante), con una vista che mi aprì il cuore.

Ecco giudicate voi se l’acqua era torbida… E comprendete anche una delle ragioni per cui amo viaggiare in maggio: nel porticciuolo le imbarcazioni si contavano sulle dita di una mano mentre, immaginai, da giugno in poi doveva essere tutta una selva di alberi di yacht.

M’innamorai subito del piccolissimo paese, di una cinquantina di abitanti, con vari bar che avevano tavolini quasi sull’acqua. I turisti – ancora molto pochi, per fortuna – esistevano, ma la loro presenza non risultava per nulla invasiva.

Dovunque regnava una silente calma irenica.

Anche qui c’erano vari cani senza padrone, ma ultrapacifici, pigrissimi e coccolati da tutti.

Un giovane cameriere del ristorante, che aveva una gran voglia di far conversazione con me – era originario di Aerópoli e Gheroliménas, così piccina, gli stava piuttosto stretta – e che mi parlava in uno buffo mix di italiano e spagnolo, m’informò che la maggioranza degli affezionati erano Scandinavi e che ci venivano durante tutto l’anno.

Mi nacque una gran voglia di stabilirmi là per giorni e giorni, dimenticare tutto e tutti e magari mettermi a scrivere.

L’unico problema, come dappertutto del resto, era che non avevo uno straccio di libro da leggere. A dire il vero, in un bar trovai alcuni volumi piuttosto usurati, che si potevano prendere e poi riconsegnare a piacere ma, o erano scritti in neogreco, o in inglese. Ne trovai soltanto uno in francese e, in pieno delirio di astinenza, lo prelevai bramosa e mi ci buttai a pesce, ma purtroppo mi accorsi subito che era pessimo: una storiaccia tutta piena di scene disgustose di sesso violento, tipo stupri e incesti, e pure scritte male. Insomma, non potei leggerne che pochissime pagine per poi rassegnarmi a desistere.

Intanto, mi s’insinuava una strana fantasticheria: non so che avrei pagato per avere avuto nello zaino almeno un libro scritto da me – avevo già scelto quale, il più breve di tutti: Brividi nel cammino di Santiago – e poterlo lasciare là in quel baretto, in modo che un giorno, uno sconosciuto lettore, magari anche lui rimasto senza nulla da mettere… sotto gli occhi, ne potesse – chissà? – godere.

Verso sera feci una passeggiata intorno al minuscolo abitato, esplorando il golfo su cui s’affacciava, cercando invano di fotografare in maniera soddisfacente l’incombere a picco sulle case e sul mare di temibili pareti di roccia.

Volendo in qualche modo sfuggire a una natura così severa, che mi metteva una certa soggezione – sempre delle ultime propaggini del Taighétos si trattava – mi ero poi divertita a scovare dei fichi d’India, seppur involontariamente, burloni.

A questo punto, vi domanderete perché non mi sia fermata di più a Gheroliménas e dove stava scritto che dovessi per forza raggiungere il capo estremo del Mani, ossia Capo Ténaro.

Tanto per cominciare, purtroppo non disponevo di un budget infinito e poi volevo visitare ancora tante altre cose nel Peloponneso.

Quanto a capo Ténaro, l’impossibilità di consultare l’Odissea e di controllare se ricordavo con esattezza certi passi, e così pure di collegarmi via internet col nuovo cellulare, mi fece prendere un abbaglio. 

Insomma, io ricordavo vari eventi disgraziati collegati a Capo Ténaro, ad esempio, da lì s’erano scatenati enormi marosi che avevano poi provocato il naufragio di una parte delle navi di Menelao (Od. III, 286-299). Anche Agamennone proprio da quelle parti aveva rischiato di lasciarci le penne (Od. IV, 514-518). E questo era successo quando tutti e due gli Atridi, che per la cronaca erano fratelli, eran di ritorno da Troia, dopo che la città era stata espugnata.

Anche Ulisse aveva doppiato quel capo tempestoso e sarebbe poi giunto ad Itaca senza troppi problemi, ma proprio là, per nove giorni era stato trascinato dal vento del nord lontano dall’isola di Citera (Od. IX, 79-83) e per lui eran cominciati i guai più seri. Ulisse, infatti, a partire da quel momento, non incontra più genti “che mangiano pane” (Od. IX, 89).

E sapete che cosa sottintende questa tipica espressione omerica? Niente di rassicurante: significa che Ulisse avrebbe incontrato solo popoli inquietanti (come i Lotofagi, pacifici ma drogati e “droganti”) e selvaggi. E soprattutto popoli crudeli che, non solo non rispettavano le leggi dell’ospitalità, ma che potevano addirittura essere antropofagi: quali i Lestrigoni e i Ciclopi.

Tutto maledettamente interessante, ma c’è un piccolo particolare: quel capo così rischioso da doppiare non è Capo Ténaro, bensì Capo Maléa, che si trova nella punta estrema non già del Mani, bensì del terzo “dito” del Peloponneso: non quello di mezzo, ma quello più a Est.

Lo so, potrei benissimo barare e non dirvi che ero incorsa in questa topica, resa ancora più grave dal fatto che sono una fanatica dell’Odissea, ma voglio rivelarvela a mio disdoro.

Tuttavia, il granchio che presi fu salutare: mi diede l’energia per affrontare questa non facile impresa. 

13. Capo Ténaro: i due mari

Dopo aver lungamente studiato su dettagliata una cartina – che avevo sempre con me – la propaggine estrema del Mani e, dopo aver constatato che mi trovavo a circa venticinque kilometri da Capo Ténaro, chiesi consiglio al proprietario dell’hotel, signore disponibilissimo e soccorrevole. Dichiarai che ero disposta a fare un pezzo del percorso a piedi. Al che, lui mi procurò per l’indomani mattina un taxista di sua fiducia, disposto a depositarmi dove finisce la strada carrozzabile, costui mi avrebbe poi recuperata nel pomeriggio. Il tutto per una tariffa onestissima.

Il giorno dopo, il mio momentaneo, simpaticissimo e decisamene aitante, chauffeur, con mio grande piacere, m’illustrava con dovizia di particolari il nome delle varie località che attraversavamo o che vedevamo da lontano e io seguivo emozionata il percorso, rintracciando i nomi sulla mia mappa e ricordandomi delle varie soste che vi aveva fatto Fermor.

Man mano che ci si spingeva più a sud, la vegetazione, già scarsa, tendeva a scomparire del tutto. Insomma, il Mani assomigliava sempre più a come me lo aveva descritto un amico che lo aveva visitato di volata in piena estate, molti anni prima: una desolata pietraia. Una landa lunare, che resta quasi immutata nelle varie stagioni.

Arrivati in un vasto piazzale di parcheggio, il taxista mi spiegò che mi restavano solo un paio di kilometri da fare a piedi. Percorrendo un facile sentiero, mi assicurò, sarei giunta al faro che sta proprio sulla punta di Capo Ténaro. Mi invitò, poi, ad aspettarlo, senza fretta, ad un’ora imprecisata del pomeriggio, nell’unico bar-ristorante che c’era in tutta la zona, non lontano di là. E a non aver fretta avevo imparato già da tempo.

Cominciai il percorso che, secondo la guida Routard, non era difficoltoso e che sarebbe dovuto durare al massimo una mezz’ora, poco più.

Invece, capii subito che quel sentiero, molto mal tracciato e irto di rocce, non solo non era breve, ma mi avrebbe dato del gran filo da torcere. Incontrai, all’inizio, qualche raro Tedesco, ovviamente super gagliardo, ovviamente super veloce, ovviamente coi piedi calzati in scarponi da alta montagna. E quello era un lusso che io non mi potevo certo permettere, sempre a causa del mio esiguo bagaglio. Insomma, fui obbligata per tutto il viaggio a tenere le medesime calzature, ossia delle scarpe basse da trekking ultraleggero, scarpe che, come si dice in gergo, avevano pochissimo “carrarmato” sulle suole.

Ma che fretta avevo mai? Decisi, anche memore del mio polso ancora alquanto dolorante, di prendere il sentiero con calma e con estrema prudenza.

Il premuroso cameriere di Gheroliménas mi aveva avvertito di non trascurare un paio di deviazioni in modo da non perdermi le rovine, prima di un piccolo tempio e, poi, di un mosaico romano.

Per fortuna, entrambi questi piccoli siti erano ben segnalati da un paio di cartelli.

Ecco, ora vi mostro i resti di un tempietto che, presumibilmente, era divenuto in seguito un sacello paleocristiano. La dicitura del segnale era piuttosto inquietante, giacché recitava testualmente: “Tempio-santuario dedicato alla necromanzia di Poseidone del Ténaro”. Un oracolo in cui i morti venivano evocati per divinare il futuro, in poche parole! Non so se mi spiego! Non per niente su questo capo era situata, come vi spiegherò tra poco, una delle entrate dell’Ade. Il tempietto incuteva un timore reverenziale e vi sostai a lungo, osando persino a varcarne la piccola soglia.

Dopo poco, abbandonato di nuovo il sentiero, ci s’imbatteva in un minuscolo pavimento musivo romano: un cerchio delimitato da onde stilizzate.

Purtroppo non sono in grado di fornirvi le date precise delle due costruzioni in rovina, date che non venivano rivelate né dai cartelli, né dalle guide cartacee che ho consultato, né da varie annotazioni in rete, che in seguito ho ricercato.

Il paesaggio, seppur aspro e desertico, emanava un fascino irresistibile e, ben attenta com’ero a non fare una brutta caduta, cosa che poteva capitarmi ad ogni sasso e ad ogni passo, me lo sorbii tutto con lenta voluttà.

Come potete vedere, purtroppo il cielo era coperto e la luce fosca rendeva l’acqua del mare quasi livida.

Dovete sapere che ho un tallone d’Achille che mi limita non poco: ebbene, soffro tremendamente di vertigini. Ebbene, man mano che lo spessore di questo lembo estremo di terra si assottigliava, sempre più venivo presa da sgomento anche perché il sentiero, che continuava a perdersi nella sassaia, e mi induceva spesso a tornare sui miei passi, mi faceva temere di scivolare di lato. Ad un certo punto, scorsi la punta del faro, ossia la mia meta, e mi sembrò lontanissima e irraggiungibile.

Poi la lanterna del faro scomparve. Ero sola, più sola di quanto mi sia mai sentita in vita mia. Nessun altro camminatore all’orizzonte. Di solito la solitudine mi dà conforto e piacere, ma quando son preda di capogiri, un po’ meno. Tuttavia, strinsi i denti perché di tornare indietro, oramai giunta a quel punto, proprio non se ne parlava. Poi finalmente la lanterna riapparve.

E alla fine conquistai la piazzola panoramica dove si erge il faro: un’esaltante soddisfazione che dispero di potervi comunicare.

Una sensazione simile l’avevo provata una decina d’anni addietro quando avevo raggiunto il faro di Finisterre a conclusione del Cammino di Santiago. A onor del vero, a piedi ero giunta solo a Santiago di Compostela e, non disponendo del tempo sufficiente per proseguire oltre il cammino, a Finisterre ci ero arrivata, assai meno gloriosamente, in bus. Inoltre, i due kilometri scarsi per arrivare a quel leggendario faro galiziano li percorsi su un comodo nastro d’asfalto. Eppure, anche in quel caso, mi sentii tutta protesa verso qualcosa di estremo: sapevo di essere nel punto d’Europa più ad Occidente che avessi mai toccato. Davanti ai miei occhi si stendeva fino al lontanissimo orizzonte l’Oceano luminoso e immenso e mi faceva un grande effetto sapere che era il medesimo che, dall’altra parte, lambiva, nel Nuovo Mondo, l’America del Nord.

Purtroppo a Capo Ténaro non fui altrettanto fortunata: la visibilità lasciava molto a desiderare e mi dispiaceva assai non intravvedere neppure Citera e men che meno Creta, situate più a sud-est.

Tuttavia, mi affacciai trepidante al parapetto e, per quanto potei, mi sporsi sulle rocce, che vi assicuro erano molto più a picco di quanto questa misera foto possa far capire.

Vedete quegli scogli neri? Ecco proprio là s’incrociano i due mari. Alla destra di chi guarda (ad ovest) sta il mare Ionio e alla sua sinistra (a est) gli va incontro il Mar Egeo.

E ancora, proprio questo è il punto più a sud del Peloponneso e di tutta la Grecia peninsulare.

Giusto in quella piccola e cupa cresta di rocce il terribile Taighétos finisce. O, meglio, ha fine solo la sua parte emersa perché dovete sapere che, più al largo, s’apre un abisso spaventoso di ben 5267 metri: il punto più profondo di tutto il Mediterraneo!

In preda a queste fantasticherie vertiginose, rimasi incollata sulla terrazzina sotto al faro e persi, come è facile immaginare, la cognizione del tempo e dello spazio.

Pensavo anche a Fermor che aveva raggiunto questo capo, che attraeva in maniera irresistibile pure lui, non via terra, come io avevo appena fatto, ma via mare. Ci era arrivato a bordo di un piccolo caicco, che aveva depositato i pochissimi passeggeri, oltre a lui, a Marmári, ossia là dove il Mani si assottiglia al massimo grado, per usare la sua felicissima espressione: “in un vitino di vespa”, per poi gonfiarsi di nuovo nella sua propaggine più estrema.

Questo intrepido viaggiatore, che aveva fatto da autodidatta ottime letture classiche, amava come me Apuleio, in particolare aveva ben presente quel passo de L’asino d’oro in cui Psiche viene inviata, da una odiosa Venere a lei avversa, fin nel palazzo del re degli Inferi. Sì perché proprio nel Ténaro: “una località nascosta, fuori dalle strade battute” (Asinus aureus, VI, 18) si apre uno dei pertugi che permettono di accedere al regno degli Inferi. Adesso capite meglio il senso di quel minaccioso cartello necromantico, che segnalava il tempietto del dio del mare.

Un’ultima annotazione su Fermor a Capo Ténaro. Lui era convinto di trovare una caverna e il barcaiolo gliela indicò poco più a nord del capo, nel versante ionico. Ma l’Inglese rimase esterrefatto constatando che la grotta che lui cercava era quasi del tutto sommersa dal mare. Questo non bastò a scoraggiarlo e Fermor si tuffò nuotando a lungo, intrepido, sott’acqua, nonostante questa fosse gelida, cercando invano altri accessi sottomarini; ma infine dovette desistere e tornare alla sua barchetta.

Pensando alla grande audacia dell’Inglese e, di contrasto, alla mia scarsa prestanza fisica, e scossa da grande ammirazione – l’invidia la lascio agli dei avversi – alla fine mi decisi ad abbandonare il faro.

Ebbene, già ero piena, fin dai primi passi del ritorno, di un’indomabile nostalgia.