Patrasso, solo andata

 

Approccio

 

Quando tu giungerai all’isoletta
nella baia di Ghýthion sonnolenta
dove si narra ch’amor non aspetta
di contro troverai in te già spenta
ogni violenta brama che vuol fretta.
Non temi il tempo che con te passa:
detesti diventar vecchia e gradassa.

Componendo questa semiottavina semiseria non ho certo preteso di far opera di poesia, ma mi son divertita a cesellarla maniacalmente per giorni e giorni onde supplire ad un’acerba privazione, con cui ho dovuto far i conti per gran parte del mio viaggio nel Peloponneso: la totale mancanza di qualcosa da leggere. Molto presto, infatti, è letteralmente andato in fumo il mio smartphone, nonostante fosse nuovo – è il caso di dirlo – fiammante, e assieme al fedifrago marchingegno, molti testi più o meno impegnativi, che esso conteneva. Ma questo ve lo racconterò con calma e a suo tempo.

Ora, chi mi conosce sa – e chi ancora non mi conosce è bene lo sappia subito – quanto sia maledettamente fissata col bagaglio leggero, quindi, di aggiungervi dei libri, ossia del peso in più, proprio non se ne parlava. Partendo poi nei primi giorni di maggio, avendo più volte sperimentato i danni del mutamento climatico, non ero affatto sicura di trovare un tempo atmosferico clemente, né, spostandomi spesso, di poter fare la bugada – si dice proprio così in neogreco – tutti giorni, sicché era più prudente che mi portassi piuttosto qualcosa per coprirmi bene; casomai avrei eliminato man mano i vecchi indumenti che non fossi più riuscita a lavare. Un’opera di successivo alleggerimento dalla forte carica simbolica: una pratica o, meglio, un rito che mi riempie sempre gran soddisfazione, perché mi avvicina, almeno un pochino, ad uno dei miei inarrivabili miti: Diogene di Sinope e la sua  bisaccia di Cinico.

Ed ora, due parole per spiegare quei pochi versi che avete appena letto, che altrimenti rischiano di restare eccessivamente sibillini. Ecco, sapevo che Ghýthion è il porto di Sparta e che di fronte vi è una piccola isola, Kranae, che era stata visitata da due personaggi omerici, che molto mi stanno a cuore: Elena e Paride. I due leggiadri amanti, in fuga dalla reggia di Menelao – il quale, come molti imprudenti mariti, s’era assentato in un momento nevralgico -s’imbarcarono proprio là per Creta per poi raggiungere Troia. E i due erano talmente impazienti di restare a tu per tu, che, appena salpati, si fermarono subito dopo a Kranae per passarvi la loro prima notte d’amore. Lo ricorda con bruciante nostalgia lo stesso Paride, dieci anni dopo, ad un’Elena che, nel frattempo, si era disamorata di lui (Iliade, III, 438-448). Ebbene, una volta giunta a Ghýthion, mi precipitai nell’isoletta dirimpettaia, che oggi è saldata alla terraferma con un molo, e scattai questa foto.

Come potete vedere, Ghýthion è veramente ad un tiro di sasso da Kranae, al che, cosa che mi succede in media ogni vent’anni, mi venne voglia di scriverne una poesiola.

1. Ma perché proprio il Peloponneso?

Se avete letto Verso Itaca, ossia la cronaca di un viaggio che feci un anno fa per conquistare l’isola di Ulisse, sapete che già allora mi proponevo di approfondire la mia conoscenza del mondo miceneo. Se non l’avete ancora letto, potete sempre rimediare.

Insomma, avevo già scoperto ad Itaca non trascurabili tracce della civiltà micenea e volevo farne un’esperienza ancora più significativa.

Inoltre, se ad Itaca avevo assaporato il genius loci della patria di Ulisse, mi mancava un tour nelle terre visitate da Telemaco, quando si mette alla ricerca del padre. Ossia quello che vien raccontato nel terzo e nel quarto libro dell’Odissea. Avevo, insomma, la curiosità di visitare il sedicente Palazzo di Nestore (vicino a Pýlos) e poi Sparta.

Ovviamene, non mi sarei limitata alla sola Telemachía, perché, scegliendo di esplorare il Peloponneso, avrei avuto modo di dare sfogo a due miei “deliri” infantili: il primo è l’amore per le Civiltà sepolte (alludo al famoso libro di Ceram, che lessi precocemente in una versione per scolaretti) e, a tal fine, mi proponevo di visitare vari siti archeologici. In secondo luogo, come sognano tanti bambini mai cresciuti, avrei potuto arrampicarmi su rocche e diruti castelli, di cui quella terra è ricchissima.

Come se non bastasse, tra le varie letture che avevo fatto per prepararmi al viaggio, c’era stato un illuminante libro di un viaggiatore inglese, Patrick Leigh Fermor, che si era perdutamente innamorato, fin dagli anni quaranta, del Mani, ossia della penisola mediana delle tre che, a forma di dita, si trovano nel sud del Peloponneso.

Intuivo, perciò, prima di partire, e in seguito ne ebbi conferma, che quello che avrei fatto non sarebbe stato un solo viaggio, ma più viaggi contemporaneamente: nel mondo arcaico e classico, in quello bizantino, in quello della conquista dei Franchi, dopo la quarta Crociata, in quello della penetrazione veneziana, in quello della dominazione ottomana e, infine, in quello delle lotte per l’indipendenza della Grecia ottocentesca. E non è nemmeno corretto pensare ad una semplice struttura a scatole cinesi perché spesso tali conquiste e riconquiste si sono avvicendate e scalzate reciprocamente a più riprese, sicché in un medesimo luogo potevano convivere vari strati.

Per cui a quelli che mi dicono: “Ma io in Grecia ci vado soprattutto per andare al mare: mi piazzo su un’isola e sto da dio”, rispondo che non è escluso che un giorno lo farò pure io, ma che, per il momento, ho ancora tante cose da vedere e, molte di queste, si trovano proprio nel Peloponneso.

Quanto alla voglia fare bagni, la soddisfo per il momento altrove: in un’isoletta dell’Istria (Brijuni) e all’Elba. Anche perché i viaggi di esplorazione preferisco farli nel mese di maggio, mese non molto adatto a pratiche balneari, in cui tuttavia si viaggia meglio perché non è ancora caldo, i turisti non sono ancora una legione, le montagne sono ancora verdi e piene di fiori selvatici.

Prima di proseguire, forse è meglio che vi fornisca una cartina del Peloponneso così tutti i miei spostamenti vi saranno più chiari.

2. Come avrei viaggiato

Quanto alle questioni prettamente logistiche, guardate il titolo di questa cronaca: Patrasso, solo andata. Ecco, ammetto che è un tantino esagerato non foss’altro perché sono poi tornata. Il fatto è che non volevo esser strangolata da scadenze già prefissate. Non avendo la patente e non sapendo condurre nemmeno un motorino, era necessario che viaggiassi soprattutto in autobus e immaginavo che non ne avrei trovati a tutti gli orari che avrei voluto. Sicché non aveva molto senso che prenotassi troppo in anticipo gli alberghi dove avrei sostato, visto che non avrei saputo, se non all’ultimo momento, quando sarei riuscita a raggiugere ogni singola località. La scommessa era, pur selezionando prima i luoghi che intendevo visitare, non farsi prendere dalla smania di programmare tutto: mi sarei adattata alle circostanze e avrei imparato dai Greci odierni, che, come avevo già notato l’anno scorso, non hanno mai fretta. E vivono meglio.

Per far questo, bisogna armarsi di calma e di flemma e io, detestando di mio una tipica caratteristica delle persone avanti con gli anni, ossia quella di non saper aspettare, di sbuffare in preda all’ansia, mi ero prefissata, visto che ormai ho varcato i confini della terza età, di fare un sano esercizio di pazienza.

In fondo anche la poesiola che concepii a Ghýthion è giusto uno sberleffo all’impazienza.

Conclusione: mi sarei munita soltanto di un biglietto di andata e, in un secondo momento, a metà del viaggio, avrei deciso quando fare ritorno.

3. Preferisco navigare

Se posso, viaggio in nave. D’accordo, è più costoso che in aereo ma, c’è poco da fare, in Grecia, soprattutto per le sue glorie omeriche e le mitiche imprese degli Argonauti, per me ha più senso arrivarci via mare.

E poi, se le navi di oggigiorno assomigliano a mostruosi e immensi condomini galleggianti, dove imperano divertimenti di massa, navi dove non farei mai e poi mai una crociera, i traghetti, essendo molto meno mastodontici, conservano un fascino d’altri tempi.

Avevo prenotato una traversata da Venezia fino a Patrasso, ma, all’ultimo momento, per cause a me sconosciute, fu cancellata e mi dovetti imbarcare ad Ancona, caotica e disorganizzata città portuale che non amo. Tuttavia, quando dalla banchina si guarda il cavo traghetto che, di lì a poco, ci inghiottirà, beh, sono momenti che val la pena di vivere.

Una volta a bordo, trovai un mare stranamente calmo, per la stagione e, bandita ogni impazienza, trascorsi beatamente le ventiquattr’ore di attraversata senza mai annoiarmi.

Avevo tante cose da fare: studiare al meglio i percorsi in una dettagliata mappa del Peloponneso, ripassare un po’ di frasi utili in neogreco, leggere parte di quello che il mio cellulare conteneva, ma soprattutto mi piaceva starmene ad oziare sui vari ponti.

Nella seconda metà del viaggio, presi questi appunti, che rendono un poco l’idea dell’atmosfera a bordo:

 

Scivola sulle acque il traghetto da Igoumenítsa verso Patrasso costeggiando l’Epiro e varie isole, di cui non sempre riesco a ricostruire con certezza l’identità… ma che me ne importa? Sto navigando e già questo è un impagabile incanto. Odo di sottofondo un incessante clamore babelico: primigeni camionisti balcanici e greci, attempati e petulanti turisti francesi, sussiegose zitelle inglesi, un’irrequieta scolaresca tedesca in gita. Ebbene, il loro incessante parlare e parlare, e persino il loro schiamazzare, a poco a poco, cessa d’infastidirmi e mi culla. Mi culla in quell’utopica illusione che da sempre m’è cara: quella che esista ancora in tutte le sponde del Mediterraneo, ora svilito e snaturato da feroci quanto insensati conflitti, un indistruttibile mondo cosmopolita dove in ogni porto ci si possa sentire sempre un po’ a casa. Un mondo di traffici, magari truffaldini, ma mai violenti. Un mondo per curiosi e indefessi viaggiatori… il mio mondo…

 

Adesso vi rassicuro: con questo ho finito di ammannirvi pagine in serbo, ossia poesie o prose liriche, insomma non v’annoierò più e passo raccontare la parte più saliente del viaggio, che, essendo durato ben venticinque giorni (dal cinque al trenta di maggio), dovrò narrarvi, giocoforza, per sommi capi e non giorno per giorno come ho fatto l’anno scorso.

Inoltre, avendo scattato quasi trecento foto, parlo solo di quella minoranza che non ho man mano eliminato, dovrò impormi una rigorosa, quanto dolorosa selezione.

A Patrasso, il cielo non prometteva nulla di buono, per cui il mio desiderio di visitare qualche suo monumento, tipo l’esedra romana, sfumò grazie ad acquazzoni davvero pesanti. Mi ero portata dietro un ombrello, solo perché sapevo che il tempo ad Ancona era incerto, sperando di potermene disfare al più presto. Invece, il giorno dopo e per molti altri giorni in seguito, fino a tre giorni prima di reimbarcarmi per il ritorno, spesso – ahimè! – mi fu estremamente utile.

4. Olimpia… un vero delirio…

La prima meta importante era Olimpia, dove mi proponevo non solo di visitare gli scavi, ma soprattutto il Museo Archeologico.

E passai molto del mio tempo, mentre fuori diluviava, a contemplare una serie di altorilievi e di sta

tue le cui riproduzioni conoscevo già a menadito da lungo tempo, ma che, viste da vivo, mi tolsero letteralmente il fiato. Parlo del frontone del tempio di Zeus (V sec. a.C.); in particolare rimasi assai turbata nel poter osservare da vicino la violenza di un tentativo d’uno stupro centauresco, che si rivela ancor più crudo scoprendo certi dettagli dell’attacco e della strenua difesa. Tremendo è, in particolare, non solo il gioco delle mani che palpeggiano indiscrete e delle dita, di colei che è assalita, che oppongono schifata resistenza, ma ancora più tremenda è la morsa avvolgente di quella equina zampa zoccoluta.

Tuttavia fu in una sala successiva che ebbi un vero tracollo: allorché m’imbattei nella famosa statua, forse di Prassitele (IV sec. a. C.), che raffigura Hermes (da sempre la mia divinità preferita), che tiene in braccio Dioniso ancora piccino. E qui voglio chiarire che non m’interessa un bel nulla che venga stabilito con certezza – i critici sono tutt’ora divisi – se si tratta di un’opera originale o di una copia ben più tarda: quello che conta è lo choc che mi ha procurato.

Un mancamento analogo lo avevo avuto solo un’altra volta, più di trent’anni addietro, visitando il Museo Archeologico di Atene, imbattendomi nel Poseidon dell’Artemision (V sec. a. C.). Quella volta, però, la perfezione delle forme di quel corpo – è il caso di dirlo – divino risultava per me mitigata dalla convenzionalità arcaica di quel viso barbuto. Inoltre, Poseidon – o Zeus che sia – ha ai miei occhi meno fascino perché si tratta di un uomo nel pieno della sua prepotente e matura virilità, mentre Hermes è ancora un giovine in fiore, pieno di seducente gentilezza. Così ce lo descrive, del resto, anche chi compose il canto ventiquattresimo dell’Iliade (vv. 357-358): “con le sembianze di un giovine principe, cui fiorisce la prima peluria della barba e la sua giovinezza è piena di grazia”. In quel frangente, per la cronaca, Hermes viene inviato da Zeus a far da guida al vecchio Priamo che, impavido, s’era avventurato di notte nell’accampamento nemico per ottenere da Achille la restituzione del cadavere di Ettore. E il dio, solito ad accompagnarsi ai viandanti, soccorre volentieri il vegliardo con affettuosa sollecitudine.

Ebbene, tutto quello che avevo letto – e vi assicuro che non è poco! – sulla personalità mitica di Hermes, passò immediatamente in sott’ordine in quella saletta del museo di Olimpia, dove il dio regna solitario e magnifico nella sua prepotente ed ermafroditica bellezza.

In particolare, persi la testa nel contemplare fino allo sfinimento la divina callipigia di tale giovane Hermes nonché la mollezza della sua postura.

Alla fine, stramaledicendo la fastidiosa luce sfalsante di vari stupidi faretti, che m’impedivano di trarne delle foto decenti, di un’infinità di scatti, ne salvai solo pochissimi, tra cui questi.

Vi risparmio le foto degli scavi che, bisogna lo sottolinei, son tenuti benissimo, scavi che visitai a lungo il giorno dopo, sempre tenendomi fedele al mio proposito di far le cose con estrema calma. Insomma, da acerrima nemica del turismo intensivo.

Mi preme piuttosto segnalarvi una ricerca che feci di un personaggio avvolto nella leggenda, ma che è esistito storicamente, ossia il giovanissimo favorito dell’imperatore Adriano – forse avete già capito che si tratta di Antinoo – morto in maniera misteriosa, annegato nelle acque del Nilo (130 d. C.).

Non fu facile per me trovarlo perché lo avevo cercato invano tra le statue del Museo Archeologico, al che mi venne in mente che poteva trovarsi in un altro museo di Olimpia, meno famoso di quello principale, ma che è bene non trascurare: il Museo dei Giochi.

E proprio colà finalmente lo scovai, in una saletta laterale, dove era stato collocato senza porlo particolarmente in risalto. La statua purtroppo non è in buonissime condizioni.

Quelli che sono affezionati alle forme, anch’esse ermafroditiche ed androgine, dello sfortunato giovinetto resteranno delusi perché qui viene raffigurato completamente vestito – pare da pastore –  e non già senza veli, ossia mentre rivela tra l’altro, oltre alla sua acerba grazia, le sue natiche perfette.

Ora, dopo che Antinoo morì, Adriano, che gli sopravvisse otto anni, non si diede più pace e lo fece divenire oggetto di culto, sicché le molte immagini di lui sono qualcosa di completamente idealizzato e, giocoforza, appaiono algide. Si pensi, ad esempio, all’Antinoo di Villa Adriana a Tivoli, ma anche secoli e secoli dopo, a come fu raffigurato dal Rinascimento in poi.

Ebbene, nonostante non mi possa appoggiare a nessuna fonte storica, ho avuto la nettissima sensazione che la statua fosse stata scolpita mentre il giovinetto era ancora vivente e magari s’era recato ad Olimpia con Adriano, ecco perché – prendetelo solo come una mia fantasia – il suo volto, seppur bellissimo, non è scevro da qualche imperfezione. Più che la malinconia, che banalmente vi si può supporre, io vi trovo addirittura qualcosa di indolente e financo bovino nei tratti, soprattutto nella mascella. Insomma il volto di un ragazzino che sta ancora crescendo. E Antinoo non arrivò mai ad essere ventenne. Per rivelarlo in pieno l’ho fotografato, un po’ perfidamente, più da sotto che ho potuto.

Ecco, quest’immagine l’ho colta non certo per sminuire l’inoppugnabile fascino del fanciullo, casomai per aumentarlo, poiché il giovinetto, così svelato, mi diviene ancora più caro, in quanto – so di usare una parola ridicola quando si ha a che fare con un’opera d’arte – più… “autentico”.

5. Kyparissía: stazione d’autobus

Ovviamente, per arrivare da una località ad un’altra bisognava che prendessi vari autobus, ossia che affrontassi tragitti più o meno lunghi e complicati. Uno di quelli più a sorpresa è stato quello tra Olimpia a  Pýlos che prevedeva più cambi in orari e in stazioni che non mi era dato sapere in anticipo, né domandandolo alle biglietterie, né collegandomi via internet. Mistero. L’unica cosa da fare, in casi come questo, è non perdere la calma, cominciare col partire la mattina molto presto e poi sperare che le coincidenze esistano.

Cambiai così una prima volta a Pýrgos (che in neogreco, ma anche in greco antico, significa “torre”), dove il bus per Kyparissía (località che a che fare coi “cipressi”) si fece attendere parecchio e, una volta là, mi misi ad aspettare.

Tra tutte le stazioni di autobus dove sostai – alcune modernissime e tenute come uno specchio – questa è quella che più ricordo con più nostalgia e con uno stupore che non accenna a cessare. Vi spiego: mai avevo visto niente di più anacronistico, tipo anni cinquanta, per capirci. La sala di attesa era uno stanzone, stracolmo di persone in paziente attesa, perché, non mi stancherò mai di ripeterlo, i Greci non hanno affatto un rapporto nevrotico coi tempi morti, anzi vi si adagiano imperturbabili senza mai lamentarsi.

Ma quello che calamitò la mia attenzione fu un incredibile scomparto dove c’erano in esposizione i cosiddetti “generi di conforto”: esclusivamente biscotti secchi o vari snacks anch’essi secchi e bottigliette d’acqua a temperatura ambiente, ossia calda.

Ad un certo punto, entrò un gruppetto di Tedeschi, chiese, ad un arcaico e prognato bigliettaio, quando sarebbe passato il prossimo bus, al che, i suddetti turisti vennero invitati a sedersi tra gli altri, cosa che avevo già fatto anch’io, e costoro, schifati ed indignati, se ne andarono via brontolando. Risultato: nel bus, che partì un’oretta dopo (ossia quasi subito, secondo i parametri locali), ero l’unica straniera. Volete saperla tutta: provai una gran soddisfazione!

Una volta che la corriera fu in moto, mi misi ad ascoltare varie canzonette sparate dalla radio, dove i versi che finivano in “o” facevano rima con “s’agapó” (“ti amo”) e tutti i passeggeri ci canticchiavano dietro. Non so come spiegarvelo: ero stanca, ma contemporaneamente ero anche allegra.

Dopo un bel po’ arrivai a Pýlos, senza dover fare altri cambi e, ad un certo punto, circa una quindicina di kilometri prima, intravidi un sito archeologico che aveva tutta l’aria di essere il palazzo di Nestore, che avrei voluto visitare il giorno dopo. E io che avevo temuto che non fosse collegato con nessun mezzo pubblico!

Splendida oltre ogni dire è baia di Navarino (è questo il nome che i Veneziani diedero a Pýlos), che era stata teatro di una decisiva battaglia navale (1827), durante la guerra di indipendenza greca.

Mentre cenavo e mi godevo la pace della sera, mi riusciva impossibile immaginare che, proprio in quell’ampio golfo, quasi ermeticamente chiuso dalla dirimpettaia isola di Sfacteria, era rimasta intrappolata, e poi successivamente annientata, tutta la flotta egiziana, spiegata in appoggio del sultano turco. Davvero non mi riusciva di figurarmi, in quelle acque tranquille, centinaia di navi a vela – ottomane, da una  parte, e russe, inglesi e francesi, dall’altra – che si cannoneggiavano a tutto spiano.

No, per quanto mi sforzi, per quanto mi sia documentata sulle varie battaglie, rifuggo dall’evocare con gli occhi della mente scenari di guerra: di questo, e di altri splendidi golfi che poi ammirai, dove sapevo che erano successi molti fatti sanguinosi, riuscii a scorgere soprattutto la bellezza scenografica e la loro placida atmosfera di sogno.

6. Il palazzo di Nestore

La mattina appresso, dopo essermi riletta il canto terzo dell’Odissea – che narra dell’arrivo di Telemaco presso la reggia del vegliardo per eccellenza dei poemi omerici, ossia Nestore – presi un bus e mi feci depositare proprio davanti al sito archeologico che mi premeva visitare.

Ad esser pignoli, gli scavi testimoniano di un insediamento ben più antico dell’epoca a cui si suole far risalire la composizione orale dell’Iliade e dell’Odissea. Per capirci, il palazzo in questione fu incendiato, come tanti altri palazzi micenei, circa nel 1200 a. C. inoltre quella località era già abitata fin dal neolitico, mentre si cominciò a cantare i poemi non più indietro del 1000 a. C.

Ma di tutto questo a me importava, e importa, assai poco: volevo vedere bene la pianta di un palazzo miceneo e, conscia che Nestore non è che un personaggio leggendario, volevo soprattutto immergermi nel genius loci di quella mitica reggia per inseguire le mie fantasticherie suscitate dall’Odissea, che per me è da sempre droga pesante.

Gli scavi sono molto ben organizzati, anche se non è il massimo che l’intera aerea sia coperta da una tettoia e che si veda tutto il perimetro del palazzo dall’alto, grazie a camminamenti metallici. Tuttavia, mi rendo conto che così i ruderi vengono preservati al meglio e che, con uno sguardo panoramico, la planimetria delle varie sale, fino a quella del trono (il mégaron), con al centro, ben in evidenza, la pianta di un grande focolare, acquista una chiarezza impressionante.

La cosa che, però, più mi colpì furono i cosiddetti “appartamenti della regina” perché, a ridosso del muro di una parete, era visibilissima, in quanto perfettamente conservata, una vasca di terracotta:

Ora, c’è un piccolo particolare che mi ha sempre colpito nel libro del terzo dell’Odissea: il fatto che Telemaco venga accuratamente lavato e cosparso d’olio e poi rivestito non già da una schiava – pensiamo a Ulisse riconosciuto dall’anziana nutrice Euriclea, la quale, detergendolo, gli scopre un’antica cicatrice su una coscia (Od. XIX, 376-505) – ma addirittura da una principessa! Eh sì, a Telemaco fa il bagno nientemeno che la figlia minore di Nestore, la bella Policasta (Od. III, 464-463)! E non c’è nemmeno mezza parola in più che renda minimamente piccante la scena!

La cosa mi ha sempre sconcertato: o noi siamo troppo maliziosi, o le fanciulle micenee erano molto disinibite, o Nestore aveva la segreta mira di stabilire un vincolo matrimoniale con Telemaco. In quest’ultimo caso, gli andò proprio male perché Telemaco casomai simpatizza, ricambiato, con un figlio di Nestore, Pisistrato. 

A tutto questo pensavo guardando quell’antica tinozza.

Terminata la visita, sapendo che molti oggetti rivenuti in questi scavi erano conservati nel museo di un paese (Khora) a sei kilometri da là, mi feci forza e mi ci avviai a piedi, perché mi trovavo in un luogo completamente disabitato e sapevo che non sarebbe passato un autobus per ore.

Gli dei, che spesso mi mettono, come vedrete tra non molto, i bastoni tra le ruote, fecero spuntare dalle nuvole un sole cocente durante tutto il percorso, mentre prima e dopo il cielo era, e sarebbe, tornato coperto. Sicché strinsi i denti e procedetti sul ciglio della strada guardando le distese di olivi ai miei lati, che sono pur sempre una vista piacevole.

Ora, dirò una volta per tutte che proprio tutti i piccoli, talora anche minuscoli, musei che ebbi modo di visitare nel corso del viaggio (a Kalamáta, a Ithómi, a Sparta, a Micene e a Nauplia) si sono rivelati tenuti benissimo e con una disposizione dei reperti archeologici (non di rado risalenti fino alla preistoria) e degli arredi circostanti davvero eccellente.

In quello di Khora c’era di tutto un po’: suppellettili provenienti dal bagno regale, immensi vasi dipinti ricostruiti in maniera perfetta, frammenti di splendidi affreschi con scene di caccia e infine delle tavolette con la famosa lineare B, che io vedevo finalmente per la prima volta. E non vi posso dire con quale emozione.

Mentre osservavo tutto questo assai rapita entrò una scolaresca di bambinetti davvero piccoli, al massimo di sei o sette anni, come ebbi poi modo di sapere. Non facevano un eccessivo baccano, anzi erano intenti a disegnare sui loro quadernetti, scambiandosi al massimo qualche ridente commento ma, nonostante questo, furono severamente redarguiti dai loro maestri perché stavano disturbando la kyría. Ora, l’unico adulto di sesso femminile, in generale l’unico visitatore, ero io: di turisti non ne avevo visto manco uno, nemmeno alla reggia, ma solo un’altra classe di alunni adolescenti, quella volta, che sembravano molto interessati alle spiegazioni dei loro professori… agli antipodi dei liceali italiani, poco da fare…

Insomma, ai poveri bimbi del museo di Khóra fu ordinato di mettersi immediatamente in fila e di stare zitti. Al che, quelli obbedirono prontamente e alcuni mi guardarono con simpatia, altri un po’ meno.

Io, ovviamente, mi sentivo parecchio in colpa e mi vergognavo profondamente e così lodai i bimbi e mi complimentai pure con gli insegnanti, dichiarando che quei bambini erano molto bravi.

Nel bus di rientro a Pýlos, che fortunatamente poi trovai, c’era solo un’altra passeggera oltre a me (una estroversa signora di mezza età) che mi chiese che cosa ero andata a visitare e lodò le mie scelte. S’intromise anche il conducente che, come altri suoi colleghi, volle sapere per intero l’itinerario del viaggio e che mi diede il suo beneplacito.

Quello che mi colpì allora, e anche in seguito, fu l’orgoglio che i Greci, giustamente, hanno per la loro civiltà che cominciano a conoscere dettagliatamente fin da piccini.

In Italia non si fa altro che parlare di identità nazionale, se non addirittura locale, ma, se si interrogassero questi benedetti identitari sulla cultura italiana, o anche solo, ad esempio, sulla storia della Serenissima, si troverebbero immensi abissi d’ignoranza.

7. Methóni e l’invidia degli dei

Dopo essermi goduta ancora per una sera le piacevolezze, visive e culinarie, del golfo di Navarino, avevo in programma di far sosta a Methóni, antica roccaforte veneziana e poi ottomana. Il tragitto in bus era molto breve sicché arrivai in tempo per depositare al volo i bagagli in un albergo e precipitarmi a visitare la possente e immensa fortezza, che sapevo avrebbe chiuso la biglietteria molto presto. Guardate come si presenta imponente anche dall’esterno.

Per rendersi conto della sua vastità, bisogna però entrare dentro alla cinta delle mura – ve ne sono poi altre all’interno – e cominciare a scoprine gli spazi.

Provai un certo dispiacere, al centro della piazza d’armi, nel vedere una colonna cui, s’intuisce, i Turchi tolsero il Leone di San Marco.

Quello che non son riuscita a rendere con le foto è quanto a lungo camminai in quella sterminata cittadella.

Intanto fantasticavo che qui si fermavano, in pieno Medioevo, tutti i pellegrini che erano diretti in Terra Santa e così pure, anche dopo, vi facevano tappa i mercanti che volevano raggiungere il Levante.

Sempre camminando di gran lena, arrivai ad una punta estrema dove sorgeva una piccola ma graziosa fortezza turca cinquecentesca.

Ma il mio pensiero andava assai più indietro, addirittura all’epoca romana, perché sapevo che questa località era in qualche modo legata al tragico destino di una coppia di amanti che mi stanno a cuore quanto Elena e Paride: due amanti non mitici, bensì storici: Antonio e Cleopatra.

Ebbene, la battaglia (navale) di Azio (in Epiro), la quale segnò il crollo delle sorti di Cleopatra e di Antonio, pare sia stata vinta più facilmente da Ottaviano, futuro Augusto, anche perché un suo astuto comandante (Agrippa) pensò bene di occupare Methóni. Questa era, infatti, una base fondamentale di rifornimento per la flotta di Antonio e Cleopatra.

Per la cronaca, Augusto mi è odiosissimo e vorrei tanto che i Romani non avessero mai vinto quella famigerata battaglia (31 a. C.).

Ma basta così con questi deliri fantastorici!

Avete guardato bene queste foto? Lo so non sono granché perché, nonostante gli scorci fossero magnifici, il cielo – tanto per cambiare – era velatissimo e i colori ne soffrirono molto.

Tuttavia, fate lo stesso tesoro di queste foto perché per un bel po’ non potrò inserirne altre nel mio réportage.

Già vi ho accennato che spesso si scatena contro di me quella che i Greci antichi, e in particolare Erodoto, chiamano: “l’invidia degli dei”, che si abbatte sistematicamente sugli uomini troppo felici. Non posso spiegarvi con calma una nozione così complicata, ma, se vi incuriosisce, cliccate qui.

Vi basti ora sapere che un mese scarso prima di partire, parlando con dei miei conoscenti, sicuramente in maniera troppo euforica, di quanto fossi entusiasta di partire per il Peloponneso, scivolai all’improvviso e di brutto su di un pavimento lievemente umido e, cadendo malamente, mi fratturai, anche se non in maniera serissima, un polso. La nave era già prenotata e rischiai davvero di non potermi imbarcare. Tuttavia strinsi i denti o, meglio, non volevo darla vinta agli dei invidiosi, e mi tolsi il tutore sicuramente troppo presto, pochi giorni prima di partire e, tra Ancona e Patrasso, mi sbarazzai anche dell’ultima fasciatura al polso, ancora dolente.

Ma torniamo alle mie sventure in quel di Methóni. Ero andata a letto tutta contenta per le emozioni provate nella fortezza e per un bell’aperitivo panoramico in riva al mare, m’ero già informata della corriera che avrei preso per Kalamáta il mattino successivo e avevo anche telefonato ad una signora greca che avevo conosciuto in un pub vicino a casa mia, a Padova, un paio d’anni addietro, e che mi aveva detto di contattarla quando fossi arrivata nel sud del Peloponneso, perché lei aveva intenzione addirittura di ospitarmi a casa sua, a Kalamáta.

Dunque, mi recai in bagno poco prima di crollare nel sonno e, nel chiudere la porta – per fortuna ero già uscita dal bagno e stavo per mettermi definitivamente sotto le coperte – sentii un click sospetto, feci per riaprire la porta ma, niente! Si era bloccata. Ora, in bagno avevo una serie di medicinali, introvabili in Grecia, per gli occhi e per la tiroide che è assolutamente necessario prenda ogni mattina molto presto.

Mi precipitai alla Reception e, come temevo, la trovai deserta. Vidi allora un avviso che mi annunciava che non c’era modo di mettersi in contatto con i proprietari dell’hotel – avevo visto, ore prima, solo due ragazze piuttosto giovani – da mezzanotte (che era passata da pochi minuti) fino alle otto della mattina dopo. Come se non bastasse, dato che il mio bus partiva proprio alle otto, le ragazze mi avevano dato istruzioni su dove depositare la chiave, visto che non le avrei incontrate uscendo troppo di buonora dall’hotel.

Al che, guardo meglio l’avviso e scopro che, solo in caso di estrema emergenza, c’è un numero di cellulare cui ricorrere. Chiamo e non risponde nessuno. Passa un altro quarto d’ora in cui tento invano di aprire la porta, poi richiamo al numero di emergenza e finalmente odo una voce decisamente poco lucida rispondermi.

Dopo un po’, arrivano in camera mia una delle ragazze e un ragazzetto; tutti e due erano scalzi e vestiti molto sommariamente, insomma mi rendo conto che li ho disturbati non già mentre dormivano, ma in ben altre faccende affaccendati. Ne sono desolata e imbarazzata. E la porta non si apre. Mi offrono di trasferirmi in un’altra stanza: soluzione che non risolve. Finalmente, dopo interminabili e frenetici armeggi con attrezzi sempre più contundenti, la porta cede.

Mi scuso per l’ennesima volta coi ragazzi da cui mi congedo, fermo la porta col cestino delle cartacce, perché non si richiuda più, e tento di dormire.

Nel frattempo, si erano fatte le ore piccole. Mi sveglio di soprassalto alle sei, lo arguisco unicamente dall’orologio da polso perché capisco che il cellulare è decisamente inguaiato: mi chiede in continuazione di riavviarlo e, una volta riavviato, si riblocca puntualmente ad intervalli sempre più brevi. Faccio per spegnerlo, perché si riprenda, e non riesco a spegnerlo.

Ora, difficilmente mi perdo d’animo, ma rendetevi conto che ero solo alla mia sesta notte nel Peloponneso e che, presumibilmente, mi mancavano altri venti giorni di viaggio. Come potevo passarli senza telefonare a mio fratello, che si sarebbe preoccupato? Non avrei potuto fare più foto, né inviarle man mano agli amici, quanto a collegarmi in internet proprio non se ne parlava. Il cellulare era nuovissimo, di marca e non lo avevo nemmeno pagato una sciocchezza.

Insomma, poco da fare, anche se non sono una patita dei social, mi sentivo un po’ persa.

D’accordo, a Kalamáta me ne sarei procurato uno nuovo ma un problema si poneva nell’immediato: giunta a Kalamáta, come avrei potuto incontrarmi con la signora che intendeva ospitarmi, di cui avevo il numero solo nella rubrica del telefono? Avevamo stabilito un appuntamento mobile alla stazione degli autobus da dove avrei dovuto però telefonarle dalle dieci in poi. Che fare?

Tra un intervallo e un altro, in cui quel maledetto cellulare funzionava per mezzo minuto al massimo, presi giù il suo numero di telefono. In un altro breve intervallo feci appena in tempo a dire alla signora che l’avrei attesa vicino alle banchine degli autobus dalle dieci in poi e che lei giungesse quando voleva. Non capì bene perché ma qualcosa intuì.

Arrivai a Kalamáta, m’incontrai con la signora, cui narrai dei due grossi contrattempi succedutesi in sole sei ore e lei, prima che passassimo per casa sua, mi portò direttamente in un caffè, di cui era un’habituée, perché mi rilassassi.

8. Kalamáta: l’invidia degli dei colpisce ancora

In quel baretto di Kalamáta ordinai un caffè-frappè (bevanda ghiacciata molto in voga ora in Grecia) ma prima avevo bisogno di andare in bagno, che si trovava piuttosto distante da dove ero seduta con la kyría. Scherzosamente dissi alla signora che, se entro cinque minuti non mi avesse visto tornare, lanciasse l’allarme.

E per fortuna che glielo avevo detto! Avete indovinato? Eh sì, successe un’altra volta: restai prigioniera nella toilette, dove, per prudenza, non mi ero nemmeno chiusa a chiave. Feci per uscire e la maniglia mi si spezzò in mano come se fosse fatta di burro. Notare che la mancanza di forza delle mie mani è proverbiale. Beh sì, confesso che persi un poco la testa e cominciai a tempestare la porta di pugni, anche perché il gabinetto era piuttosto angusto e privo d’aria. Fui soccorsa pochi minuti dopo dai proprietari del bar, che sfondarono la porta e mi liberarono mostrandosi desolatissimi per l’incidente. Al che, mi toccò pure minimizzare l’accaduto con costoro.

Adesso posso riderci sopra, ma lì per lì, lo feci un po’ forzatamente, perché ero alquanto scossa.

Anche perché si può essere illuministi e contrari ad ogni superstizione, come io sono, ma, quando ti capitano tre contrattempi di questo calibro in poco più di dieci ore, qualche domandina succede che te la fai. Tipo: che non sia un avvertimento degli dei? Significa che questo viaggio finirà male?

Ovviamente, di farmi prendere da questo modo di pensare così irrazionale non mi va proprio e cerco di non cedere.

Ora, non vi racconterò quasi nulla della signora che mi ospitò, di dove abitasse, perché non si trovava in buonissime acque, essendo disoccupata da tre anni. Lei era un’insegnante d’italiano, ma la scuola privata dove lavorava aveva dovuto chiudere, causa crisi greca che rendeva disinteressati i giovani locali ad apprendere la nostra lingua.

Sorvolo su quanto male in arnese fosse la sua casa, e sì che, fin dall’infanzia passo molto tempo all’anno sull’Appennino tosco-emiliano, di dove sono originaria e dove di case in cattivo stato ne ho viste tante… Ma per fortuna ho imparato ad adattarmi e vedere il lato comico delle scomodità.

Io e la signora parlammo moltissimo fino a confidarci reciprocamente storie di famiglia molto private, di cui non ha senso vi riferisca. Insomma, in capo a due-tre giorni, io e la kyría (che ha qualche anno meno di me ed è una persona colta, schietta e insieme gentilissima) da a malapena conoscenti diventammo amiche.

Vi dirò solo un particolare di colore locale. Il figlio, che la signora aveva avuto da un marito siciliano, incontrato mentre lei prendeva una laurea all’Università di Padova in Lettere Antiche, si chiamava Epaminóndas. Per la cronaca, in quel momento, il ragazzo, che avevo conosciuto, poco prima di sua madre, sempre in quel medesimo pub vicino a casa mia, faceva il dentista in Inghilterra.

Ebbene, raccontai alla kyría che, mentre gli amici italiani del figlio, ragazzotti paleoveneti piuttosto rozzi e incolti, lo canzonavano e lo chiamavano “Epa”, io gli avevo fatto, invece, i complimenti per portare il nome di un personaggio glorioso. E il ragazzo si era illuminato.

Dovete sapere che Kalamáta (ma anche tutte le località che sono nel “dito” più a est del Peloponneso, Methóni compresa) fanno parte della Messenia. E gli Spartani, che pure erano della stessa stirpe dei Messéni, a lungo li combatterono e li oppressero (VIII sec. a. C.), asservendoli e trasformandoli in Iloti, ossia in schiavi. Per un breve periodo (370-362 a. C.), Epaminonda, nobile condottiero tebano pose fine allo strapotere degli Spartani e liberò dalla loro oppressione la Messenia. E ancora oggi i Messeni ricordano con gratitudine Epaminonda.

Mostrando alla signora di conoscere un po’ di storia greca, mi guadagnai la sua stima e lei si offrì di portarmi con la sua vissuta utilitaria in un sito archeologico a trenta kilometri da Kalamáta, assolutamente irraggiungibile coi mezzi pubblici: l’antica Ithómi, alias l’antica Messíni.

Non posso mostrarvi nulla di questo immenso e interessantissimo sito, e neppure del vicino museo perché non potei scattare mezza foto. Tra l’altro, si era in un fine settimana e l’acquisto di un nuovo cellulare fu rimandato di due giorni.

Grazie alla mia ospite che mi faceva da guida, me la passai benissimo a Kalamáta, città portuale ridente: la attraversai in lungo e in largo a piedi e sostai pigramente nei suoi bar in riva al mare, affollati fino a notte fonda. 

Visitai anche la rocca eretta da un conte franco, la cui famiglia spadroneggiò nel Peloponneso per quasi tutto il Duecento.

Eh sì, perché i Crociati – per la precisione nella vergognosa Quarta Crociata – invece di puntare sulla Terra Santa, assediarono e poi saccheggiarono con avida crudeltà Costantinopoli, coadiuvati dai Veneziani (1203-1204). Pagina storica davvero orrenda! Evento che contribuì in prospettiva ad indebolire l’Impero d’Oriente, che sarebbe caduto due secoli e mezzo dopo in mano ottomana. In seguito  a tutto ciò, i Bizantini furono temporaneamente cacciati dal Peloponneso, che allora veniva chiamato Moréa.

Ebbene, un signore franco già di seconda generazione, nato e morto a Kalamáta, che si chiamava Guillaume II di Villehardouin (?-1278) aveva costruito quel castello e anche un’altra possente rocca non lontano da Sparta, di cui vi parlerò in seguito.

Nel frattempo, il disastroso sfacelo del mio cellulare andava di male in peggio: non solo non riuscivo a spegnerlo ma si surriscaldava pericolosamente, facendomi temere che s’incendiasse. La temuta esplosione venne sventata da un vicino di casa della kyría, gentilissimo spazzino, padre di ben sette figli che manteneva tutti agli studi, uno dei quali già all’università a Salonicco.

Approfittai del fatto che costui aveva in casa un computer funzionante – non così la signora – per cercare di sapere qualcosa di più preciso sui trasporti pubblici del Mani, che una guida turistica informatissima, da me consultata prima di partire, descriveva come molto carenti, sconsigliando addirittura di visitare quella penisola se non si aveva intenzione di noleggiare  una macchina o uno scooter: tutte cose che, come già vi ho detto, io non ero in grado di fare.

Ma chi mi conosce sa che più un’impresa vien dichiarata impossibile più mi vien voglia di tentarla. E poi mi ero giulebbata, mesi prima, un non piccolo libro (Patrick Leigh Fermor, Mani, edizione originale 1958), non sempre di agevolissima lettura, ma che aveva acceso in me l’insopprimibile desiderio di conquistare quella terra impervia.

Per cui, una mattina (era lunedì) dopo essermi procurata un nuovo cellulare (meno bello di quello di prima), salutai la mia simpatica ospite, abbandonai Kalamáta e presi un autobus per Kardamýli, che, pur trovandosi sul lato ovest della penisola centrale, sebbene solo al suo inizio, ancora faceva parte del distretto amministrativo della Messenia. Pochi kilometri dopo, sarebbe cominciata la giurisdizione della Lakonía e con i bus sarebbero iniziati i problemi.

9. Il tremendo Taigeto

In bus ero seduta vicino ad un gentile e distinto vecchietto che voleva assolutamente far conversazione con me.

Finora non ve l’ho detto chiaro e tondo, anche perché non mi va di darmi arie: mi sforzo di comunicare coi Greci di oggi nella loro lingua e, questo, per un paio di motivi: il primo che è da tutta la vita – non è esatto: è soprattutto da dopo che mi sono laureata… – che coltivo il mio amore per il mondo antico; il secondo motivo è che sostanzialmente non so parlare l’inglese e lo comprendo a fatica, dato che sono piuttosto francofona o ispanofona.

D’accordo quasi tutti i Greci, anche se anziani, parlano inglese, ma perché ricorrere ad una lingua di “di servizio” se, sforzandomi un po’, posso evitarlo?

Non sono stata molte volte in Grecia e non avendovi messo più piede per decenni fino a maggio dell’anno scorso, il mio neogreco è molto carente, oltre che rudimentale. Ma in qualche modo ci si capisce soprattutto per merito dei Greci stessi che, gentilissimi e assai lusingati per l’amore che dimostro per la loro cultura e per la loro lingua, fanno di tutto per venirmi incontro, incoraggiandomi. 

Insomma, al mio vicino di bus manifestai tutta la mia meraviglia per la maestosa bellezza di un monte, o meglio per una grande catena montuosa, che separa la Messenia dalla Lakonía, ossia il Taighétos. Questo sbarramento rendeva un tempo il Mani quasi inaccessibile via terra.

Avevo già scorto il Taighétos a Kalamáta ma è andandoci molto più vicino che si rimane sopraffatti dalla sua mole e dalla sua bellezza selvaggia.

Ormai, da dopo che il vecchio cellulare era defunto, non avevo più la possibilità di consultare i poemi omerici… e non solo quelli… Tuttavia, confidando solo nella mia memoria, mi ricordavo che nell’Odissea si parla del Taighétos, come habitat di Artemide.

Ecco, vi segnalo esattamente il passo (Od. VI, 102-104), che ora, mentre scrivo, posso finalmente consultare con calma. È quando Ulisse sta per incontrare Nausicaa. Ebbene, quella regale fanciulla è simile ad Artemide, che se ne va per i monti e per “l’immenso Taighétos”, godendo di stare in mezzo ai cinghiali e alle cerve veloci.

Nei versi immediatamente successivi, vediamo che Ulisse, teme di essere finito in una terra con abitanti selvaggi e crudeli – tipo i Lestrigoni o i Ciclopi – e, seppur colpito dalla bellezza di Nausicaa, opportunista com’è, vuole innanzi tutto ingraziarsela e le chiede se lei sia una dea o una mortale e la paragona, appunto, ad Artemide (Od. VI, 149-152).

Ma vi giuro che, anche se non mi fossi ricordata per nulla questo passo omerico, avrei avuto lo stesso la nettissima sensazione che quelle maestose e ripidissime prore montane fossero state ritenute – e, a ragione! – sede degli dei. 

In seguito, sia una volta scesa dall’autobus, sia spostandomi per la penisola del Mani, cui le ultime propaggini del Taighétos fanno da spina dorsale, sia, giorni dopo, a Sparta, tentai più e più volte di fotografare quel possente massiccio.

Pensate che, in pieno maggio, a Sparta, le cime del Taighétos, che raggiungono i 2400 metri d’altezza, appaiono ancora innevate!

Insomma, ogni mio sforzo fu vano: le foto erano maledettamente riduttive e così le cancellavo tutte con rabbia, man mano che le facevo.

Perciò, vi dovete accontentare di quello che vi dico: mai un monte mi mise tanta soggezione. Mi venivano i brividi ogni volta che lo guardavo. E sì che sono di stirpe quasi interamente montanara! Tra partentesi, il Peloponneso, che è montuosissimo, anche per questo, fa proprio per me e, di conseguenza, per tutti quelli che sono allergici alla pianura.

10. I grandi viaggiatori s’innamorano di Kardamýli

Mentre il bus, salendo e scendendo per una strada tortuosissima, si dirigeva verso a Kardamýli, pensavo a quanto fosse stato ardimentoso Fermor che, per arrivare fin là, aveva attraversato a piedi, in compagnia della giovane moglie, il Taighétos, che, all’inizio del suo libro, lui definisce addirittura un bastione “ripido e inaccessibile come l’Himalaya”.

Sia chiaro, non intendo assolutamente sminuire la sua grande impresa, tuttavia il suo modo di viaggiare presentava anche dei vantaggi. Voglio dire che ammiro parecchio il prode Inglese, grandissimo camminatore – a diciott’anni andò da Londra a Istanbul a piedi! – ma che lui disponeva pur sempre di una fida guida locale e talora di muli su cui caricare i bagagli. Faceva sì molta più fatica fisica di me, ma non era costretto a limitare in maniera così drastica il suo equipaggiamento, come accade a me quando viaggio.

Per la cronaca, Fermor, che era nato nel 1915, si accinse a visitare il Mani poco più che trentenne (io sono ormai vicina ai settanta) e in seguito prese casa proprio a Kardamýli, dove dimorò fin quasi ai suoi ultimi giorni, che giunsero per lui assai tardi (2011). Là gli faceva visita il grande Bruce Chatwin (1940-1989), che era suo amico e che morì ben più giovane di lui.

Rimando ad un mio prossimo viaggio nel Mani, di cui questo che vi sto raccontando è stato solo un primo e parzialissimo assaggio, tutto quello che non ebbi tempo di fare: cercare la casa di Fermor e la piccola località (Exokhóri), non distante dal paese, dove Chatwin volle che fossero disperse le sua ceneri. 

Quanto alla mia, molto meno illustre, persona, trovai una graziosa e modesta pensioncina, dove, per fortuna, ero l’unica a passare la notte. Notai poi, non senza disappunto, la presenza in vari bar di alcune coppie di attempati, chiassosi e floridi americani, che mostravano di essere vacanzieri non di passaggio.

Insomma il paese, pur ridente e molto simpatico e, di sicuro, in maggio assai meno affollato che nei mesi estivi, mi si è rivelato lontano mille miglia da come ce lo descrive Fermor:

 

Era un borgo diverso da tutti quelli che avevo visto in Grecia. Le case, simili a castelletti di pietra dorata, con torrette a pepaiola d’aspetto medievale (…) I monti precipitavano fin quasi a bordo dell’acqua, con qua e là, tra le case imbiancate a calce dei pescatori vicino al mare, grandi canneti fruscianti alti tre metri e tutti ondeggianti all’unisono al minimo soffio di vento. C’era sabbia sotto i piedi e reti appese da un albero all’altro.

 

Purtroppo oggi tutto ciò è quasi scomparso: non ci sono, per fortuna, scempi edilizi però l’approdo dei battelli è di cemento. Nonostante questo, conscia che lodare il bel tempo andato, non serve a nulla, ero decisa a trarre il meglio da Kardamýli, così trovai un defilato ristorantino in riva al mare e, non facendomi scoraggiare dalla temperatura gelida, mi godetti l’arrivo della notte. Ovviamente, lo feci bevendo e mangiando per ore una serie di sfizi greci, tra cui, un piatto che amo moltissimo e che qui trovai eseguito con estrema maestria e delicatezza: le melanzane dell’Imam bayildì, ossia le melanzane che provocarono lo svenimento di un imam, da quanto erano buone. In realtà, si tratterebbe di un piatto turco, ma è meglio non toccare questo tasto con i Greci…

Davanti agli occhi non avevo una baia della vastità di quella di Navarino ma, sebbene molto più piccola, comunque piena di fascino. L’isola che la delimita porta ancora il nome che le diedero i Veneziani: Sapienza. 

E questa è la prima fotografia scattata col nuovo cellulare o, meglio, è la prima che decisi di conservare.