TEMPO RUBATO

“E così mi racconto la mia vita.
Chi ha anche la più pallida idea di me, indovinerà che io ho vissuto più intensamente e più cose di qualsiasi altro uomo. La testimonianza si trova scritta addirittura nei miei libri: i quali, riga per riga, sono libri vissuti per una volontà di vita e con ciò stesso, in quanto creazione, rappresentano un’aggiunta reale, un di più di quella vita stessa” (FP, 88-89, 23 [14]).

Questo frammento postumo, che anticipa dappresso i primi abbozzi di Ecce homo, attesta molto di più d’una semplice volontà autobiografica, vi deborda provocatoria un’ancipite intenzione: il glorificare l’aggiunta messa in scena dalla scrittura e insieme svelare (da parte di Nietzsche) il carattere da sempre autobiografico – non in senso letterale, come vedremo – di ogni (suo) scritto. Il perno di questa rivelazione, che ha l’effetto di retrodatare ogni riepilogare, è da ricercarsi in quel “più”, paroletta che ricorre con un’insistenza e una pregnanza da protagonista nel testo nietzscheano. Essa può nascondersi in un titolo soppresso di Ecce homo (Ovvero: perché io so qualcosa di più di Friederich Nietzsche, FP, 88-89, 24[1]) o può venir urlata dall’eremita invocante su di sé la follia (A, 14).

Pierre Klossowski trova una felice espressione per commentare il carattere prospetticamente riepilogante dell’ultima lettera di Nietzsche a Burckhardt (chiosa che può venir applicata senza forzatura alcuna anche allo strutturarsi di Ecce homo): “I diversi temi riuniti e come superati in altrettanti raccourcis, fino a formare una visione unica” (KCV, 343=357). La lingua francese racchiude nell’unica parola raccourci molto di più di quello che in italiano si può rendere con “scorcio”: rimane in ombra la parentela con abregé e va interamente perduto il significato di “percorso più corto” in quanto “scorciatoia” (che evoca il greco póros). L’unico significato comune ad ambo gli idiomi è il raccorciamento di sbieco d’una figura acciocché appaia più grande di quella che è, ossia un uso sommamente consapevole della prospettiva. Questo aspetto risulta perfettamente in carattere con talune tematiche proprie soprattutto dell’ultimo Nietzsche, là dove egli denuncia la dimenticanza del prospettivismo, peraltro a noi connaturato (FP, 87-88, 9 [41]). Nei confronti del rimpicciolimento poi Nietzsche attua, a ben guardare, una doppia strategia: da un lato trae soddisfazione nel non intralciare la progressiva Verkleinerung dell’uomo (FP, 87-88, 9[17], [153], [162]; 10[17]) e dall’altro si propone di rimpicciolire il regno della moralità (FP, 87-88, 10[45]). Sovente può sorgere il sospetto che Nietzsche non abbia in mente altri che se stesso come destinatario dei propri scritti e che il supremo artificio della sua impostura sia stato, forse, quello di scrivere come se i suoi lettori ottimali già esistessero e non fossero, invece, fantasmi evocati dal suo bisogno di trovar compagnia in spiriti liberi a lui affini. Sospetto che diviene certezza se solo si legge il secondo paragrafo della Prefazione del 1886 al primo volume di Umano troppo umano: là Nietzsche ammette tranquillamente di aver “inventato” siffatti compagni per rifarsi della mancanza di amici. Penetriamo, allora, di sbieco nel microcosmo della solitudine nietzscheana sospettando di un’altra, e per lo più obliata, invenzione: quella che produce l’illusoria coesione di un “soggetto” mentre invece “siamo una pluralità che si è immaginata un’unità” (FP, 81-82, 12 [35])*.

Questo è il regno del grande racchiuso nel piccolo, del magnum in parvo (FP, 88-89 24[1], 7) che poi Nietzsche intende come multum in parvo (FP, 89-89, 19 [5]), in quanto, potremmo aggiungere pensando giusto a quello che s’è appena detto del “soggetto”, multi in parvo. Là il solo (GS, Scherzo, malizia e vendetta, 33), in uno scorcio di tempo, scrive per altri, che sono solo “ombre”, fingendo di dare istruzioni su come leggerlo, su come leggersi. Là vive la propria somma descrivendo da sempre se stesso (FP, 88-89, 24 [1],11) dando allo scrittore e al lettore, che sono in lui e con lui, il medesimo consiglio: reagire lentamente, divenire “amici del lento” (A, Prefazione del 1886, 5). La fretta suggerita dal raccourci, in quanto scorciatoia, si traduce nel percorrere lentamente un itinerario decurtato. Estrema lentezza e balenante rapidità (GS, 381) sono, poi, il segreto per chi scriva o legga, appunto, un segreto. Si tratta di dar vita (FP, 82-84, 1[45]) a tale insostenibile ritmo facendo esistere contemporaneamente il subitaneo e il langsam: la puntuale estaticità del pensiero e l’allungarsi e il dilungarsi della scrittura in un acrobatico esercizio di guizzante pazienza. Questo indescrivibile movimento è il medesimo del demone che irrompe lentamente nella più solitaria delle solitudini (GS, 341). La stessa andatura è ripresa dall’eterno ritornare, dal demone suggerito: alla subitanea rivelazione dell’attimo fa seguito l’esasperante risusseguirsi dell’indicibilmente piccolo e del grande, l’uno dietro l’altro, entrambi sgranati inesorabilmente e senza distinzione nell’esigua strettoia della clessidra. Una clessidra (Sanduhr) che misura il tempo attraverso il passaggio della sabbia (Sand) e che richiama lo spettacolo sempre ripetuto delle onde (GS, 310). Il terribile segreto della clessidra è di venir sempre di nuovo capovolta e quello, affine, delle onde – che per Nietzsche sono l’altro nome di “i volenti” – è di reiterare all’infinito lo stesso movimento senza approdo: “Strana sorte dell’uomo! Campa settant’anni e s’immagina di essere, in questo periodo, qualcosa di nuovo e di mai esistito – eppure egli non è che un’onda, nella quale il passato dell’uomo continua a muoversi (…) crede di essere libero, e non è altro che un meccanismo ad orologeria caricato, senza la forza di riuscire a vedere bene questo meccanismo e ancor meno la forza di di cambiarlo come e dove vorrebbe” (FP, 21[12]).

Tale è la sorte, sia del piccolo uomo, ignaro e illuso, sia di colui che ha carpito alle onde il loro ripetitivo segreto: quest’ultimo in più sa che la volontà (Wille) è onda (Welle) (GS, 310). La sua esistenza di volente, che il demone ha per sempre (felicemente) dannato, suggerisce, allora un altro apparato di misurazione: all’orologio a sabbia (Sanduhr) si sostituisce quello più antico ad acqua (Wasseruhr), all’interno del quale l’uomo appare ancor più indivisibile dagli eventi piccoli o grandi della sua vita e dal passato che, anche per sua volontà, rivive in lui.

L’immagine della clessidra ad acqua inabissa nel mondo degli antichi, spalancando il sipario sugli agoni della Grecia, là dove la retorica, un lasso di tempo rigorosamente misurato, dava pubblico spettacolo di sé (Gorgia, Encomio di Elena, 13). Era quello il regno del discorso scritto e velocemente recitato, dove non era tanto importante ricercare la verità, quanto trionfare grazie ad un’ingegnosa menzogna. Per Platone, responsabile a detta di Nietzsche d’aver calpestato gli istinti agonali della pólis (FP, 88-89, 14[94]), era l’esecrabile regno dell’inganno donde doveva tenersi lontano il filosofo per non mescolarsi coi ladri (Teeteto, 172 c-e). Là l’uomo poteva riuscire vincitore solo adattandosi al carattere fraudolento della klepsýdra: in accordo con essa doveva rubare (kléptein) l’acqua (hýdōr) all’avversario ovvero doveva far sì che la stessa acqua scorresse per l’altro inutilmente. Siffatto ladro si avvaleva in tutti i sensi di una scrittura sull’acqua volgendo a suo vantaggio la condanna senza appello da Platone pronunciata contro la graphḗ proprio perché tracciata sull’acqua(Fedro, 276 c).

Questa antica scena agonale sembra, però, presentare delle insanabili discrepanze con quella della scrittura-lettura nietzscheana. Dal palcoscenico dove si svolge quest’ultima rimane esiliato il logografo: ossia colui che per un altro, con un lungo e minuzioso cesello (Fedro, 278 d-e), ha composto il discorso scritto e ad un altro l’ha consegnato affinché velocemente lo legga. Nel caso di Nietzsche, sempre secondo la particolare angolatura di questa nostra interpretazione, tale alterità e separatezza tra scrittore e lettore sembrerebbe non sussistere, anzi parrebbero convergere in uno solo anche altri personaggi che pure facevano parte della scena agonale: il giudice e il pubblico. Si tratta, tuttavia, di una coincidenza fittizia ed illusoria perché, non dimentichiamolo, niente è meno unitario del “soggetto” che Nietzsche ha svelato esser luogo di convegno di molti. Il solitario, poi, che ha accolto con terrore e insieme con gioia la tentazione del demone è divenuto un essere in preda ad una continua metamorfosi (GS, 341) e, in più, sente perpetuarsi in sé il moto ondoso e ondulatorio del “passato” dell’umanità. Ma non basta: ogni momentanea coesione è per di più dissolta dall’essere l’uomo intimamente contessuto di oblio, quel benefico-terribile dimenticare che tutto divora, persino quell’enorme e formidabile attimo in cui l’eterno ritorno, a sorpresa, gli si è rivelato. L’oblio, allora, lo protegge sì dal disperante ritorno dell’identico (“il peso più grande”, GS, 341; KCV, 93-103=95-106) ma pure lo deruba della sua più alta felicità.

In queste fatali vacanze della consapevolezza il caso – e non l’uomo! – da capo (ADB, 56) capovolge la clessidra e la goccia d’acqua (il granello di sabbia) se ne avvede sempre in ritardo, quando ormai sta precipitando. Eppure, in tale periodico (FP, 82-84 1[70]) cadere, un io che già ha perduto ogni coesione, ossia un io che seguita a diventare un altro, non cessa di raccontarsi ad un io, altrettanto dissolto, anch’esso perennemente metamorfico. In questo rivolersi raccontare ogni volta una volta di più, e mai una volta per tutte, sta l’inesauribile carica di una scrittura che è insieme autobiografica e pseudoautobiografica (KCV, 275=282). Questa sviante impostura pervade tutto il testo nietzscheano permettendosi in più un lusso supremo: un intimo aderire al metamorfico scorrere della vita che sta narrando. La scrittura inscena, allora, il moto impostole dalla clessidra. Qua e là è possibile scoprire piccoli indizi che rivelano quanto tutto questo sia consapevole. Nietzsche, ad esempio, nel primo paragrafo della Prefazione del 1886 al secondo volume di Umano, troppo umano afferma: “tutti i miei scritti, con un’unica, per quanto essenziale eccezione, sono da retrodatare (zurück datieren)” Solo Also sprach Zarathustra “sta a sé” (EH, Prologo, 4) perché protetto e reso compatto dall’aria delle cime e dall’alcionia prossimità alla rivelazione dell’eterno ritorno, tutti gli altri scritti testimoniano, invece, di uno stato d’animo anteriore al momento in cui furono composti. Il connaturato ritardo con cui chi è prigioniero della clessidra percepisce il proprio cadere, si riflette, allora, nello scrivere sempre e solo dopo, aggiungendo in più un ritardo supplementare. Lo scrivente, che la clessidra ha derubato della (sua) vita deruba, a sua volta, il lettore sottraendogli il tempo più vicino al momento in cui il testo è stato scritto imponendogli, da impostore, un passato ancora più remoto. La traccia di tale furto sta in quello zurück, che vuol dire anche “di ritorno” e che viene impiegato quando si vuol significare una restituzione. Lo scrivente, quindi, deruba il lettore per evocare il gesto di una restituzione che, purtuttavia, sa impossibile.

Il moto di ritorno del retrodatare attira l’attenzione su altri passi dove la furtiva solidarietà tra scrivente e clessidra si afferma paradossalmente proprio là dove il primo sembra ribellarsi alla seconda: “La lunga frase della mia vita – mi domandavo tra me e me – va forse letta regressivamente? A leggerla progressivamente, senza alcun dubbio, io vi trovavo solo parole prive di senso” (KCV 115=119)**. Tale retrocedere scritturale traduce un’immagine a stento immaginabile: quella dell’acqua (o della sabbia) che, una volta caduta nel recipiente più basso, prende a risalire senza che la clessidra sia stata capovolta. Se Nietzsche avesse attuato in maniera macroscopica questa autointerpretazione, in Ecce homo troveremmo Il caso Wagner come primo, e non ultimo, raccourci. Ci si imbatte, invece, in una pagina che sembra evocare il tempo à rébours del mito platonico del Politico (270 d-e) oppure i ringiovanenti prodigi che Ovidio racconta operasse Medea (Metamorfosi, VII, 285 e ss.). È il terribile cauchemar in cui la “stillste Stunde” rimprovera silenziosamente Zarathustra d’esser diventato giovane tardi e lo invita a superare la sua giovinezza per divenire fanciullo (Z, II, L’ora senza voce). Ma la metamorfosi in fanciullo è da capo affermare la divina necessità dell’oblio per un nuovo inizio (Z, I, Delle tre metamorfosi); in questo iato di dimenticanza, possiamo immaginare un fanciullo, gemello di quello di Eraclito (Diels-Kranz, 52), che si balocca con una clessidra da capo capovolgendola.La faccia segreta di questo gioco cosmico è un viluppo inestricabile di forze discendenti ed ascendenti, non mai semplicisticamente ordinate nella sequenza di giovinezza, maturità e vecchiaia (FP, 87-88, 11[226],1). Si potrà, allora, rimanere perennemente “giovani” respingendo senza tregua da sé, ma non solo da sé, ciò che vuole morire (GS, 26): la décadence che in ogni tempo si annida. Risopravvive a questa diuturna lotta un essere più vasto e insieme più ristretto. Più vasto perché più volte si è ricapitolato (KCV, 55=60, 269=275) incontrando sempre qualcosa di differente da salvare, accogliendo su di sé l’immensa e variegata energia delle “onde”; più ristretto grazie ad un consapevole sguardo prospettico, per aver imparato, anche dimenticando, a guardare le proprie alleggerenti metamorfosi retrospettivamente e insieme di sbieco.

La scrittura autobiografica in somma è il continuo sforzo di conciliare due movimenti inconciliabili: quello di una memoria che esige l’oblio della progressione della vita e quello della coscienza della vita che esige l’oblio di questo movimento regressivo (KCV, 351=364). Per far questo, allora, l’autoscrivente ha eseguito da sempre nell’immensa partitura del Dasein – Nietzsche parla esplicitamente di “eterna clessidra dell’esistenza” (GS, 341), giustappunto un rubato (mi sia concessa questa licenza musicale per comprendere meglio un filosofo che fu anche musicista) sì, un rubato quasi indecifrabile sullo spartito. Nietzsche chiama questo sapiente e personalissimo uso del ritmo “stile”, uno stile necessario sia per scrivere, sia per leggere “la lunga frase” – e “frase” va intesa in senso musicale – della (propria) vita. Esercizio supremo di stile sarà, poi, aver riguardo per il lettore non defraudandolo in anticipo del suo piacere nell’anticipare: “Non è cortese, non è intelligente, rubare in anticipo al lettore anche le obiezioni di minor peso. È molto cortese e intelligente lasciare che il nostro lettore enunci da sé la quintessenza della nostra saggezza” (FP, 82-84, 1[45]). Scrivente e lettore si scoprono, allora, complici ma a patto di continuare a ripetere tra loro il codice segreto del Dasein d’accordo con la sua furtiva e divina viziosità (ADB, 56). Il loro interregno è nel tempo rubato dell’aggiunta che permette di perpetuare un dispendio nel compendio, salvaguardando un segreto pur continuando a ricapitolarlo.

Scrivente e lettore riconoscono la loro comune appartenenza al risonante silenzio della bella e mostruosa stirpe delle onde che, pur nel tempestare, non perdono mai la loro quiete, forti di un silenzio che ha imparato a non tradirsi nel tacere (Z, III, Sul monte degli ulivi). Onde che vivono istoriando sul loro corpo smeraldino e cangiante una graphḗ di candidi merletti di schiuma: indecifrabile sfoggio per chi non la sappia leggere. Una scrittura in cui contemplare il (proprio) non-rivelarsi, giacché in essa ci si sa da sempre (tragicamente-felicemente) perduti: “Viva la saggezza dei miei occhi che sempre più son venuti trasformando la bestia che scrive in bestia che tace” (Lettera alla sorella del 5 luglio 1885).


 

Tutte le citazioni da Nietzsche sono prese dall’edizione italiana delle sue Opere (ed. Adelphi), il cui testo critico è curato da G. Colli e M. Montinari, con le seguenti abbreviazioni:
A: Aurora
ADB: Al di là del bene e del male
EH: Ecce homo
FP: Frammenti postumi
GS: La gaia scienza
UTU: Umano troppo umano
Z: Così parlò Zarathustra

* Solo in questi due casi la numerazione dei FP nell’ed. it. Colli-Montinari (rispettivamente FP, 81-82, 12[197] e 22[14]) non corrisponde a quella dell’ed. tedesca (Werke, V, 2, Berlin-New York, 1977), ebbene si è scelto di seguire la numerazione dell’ed. tedesca.
** Si tratta di un progetto del 1886 per una nuova Prefazione a UTU, che purtroppo non mi è stato possibile rintracciare nei FP 85-87 e, così, son stata costretta a citare solo la testimonianza di KCV. Aspetto fiduciosa la collaborazione dei lettori di questo sito per trovare un riferimento diretto a Nietzsche: davvero ci conto!
La sigla KCV corrisponde a P. Klossowski, Nietzsche et le ciercle vicieux, Paris, Mercure de France, 1969; le citazioni sono prese dalla sua ed. it., Nietzsche e il circolo vizioso, Milano, Adelphi, 1981, trad. it. di E. Turolla; si è utilizzata questa traduzione solo per venire incontro a chi mi leggerà ma, siccome ho tenuto ben presente il testo in originale, talora vi si possono trovare piccole varianti, perciò, tra parentesi, troverete prima il riferimento al testo francese e poi (preceduto dal segno =) il numero di pagina dell’edizione italiana. Infine va detto che la presenza in Tempo rubato di Pierre Klossowski, cui va la mia immensa e intramontabile ammirazione, è molto più massiccia di quello che si può vedere in superficie e si estende anche ad altre sue opere, che qui non vengono esplicitamente citate, soprattutto: Nietzsche le polythéisme et la parodie (in Un si funeste désir, Paris, Gallimard,1963, pp.185-228) e Le bain de Diane (Paris, Pauvert, 1956).

Una risposta a TEMPO RUBATO

  1. Claudio Balducelli

    Nella lettura del saggio di Nietzsche sono stato attirato dall’immagine della clessidra che si capovolge (che sembra il mondo e il fluire del tempo), dai granelli di sabbia (che forse siamo noi), dalle onde (che danno eterna ciclicità). Siccome sono un fisico, ho subito ricondotto tutto ciò all’immagine della particella elementare (il vecchio Atomos di Democrito), particelle oggi tanto indagate dai fisici con potenti acceleratori presso il CERN. Le particelle elementari sono corpuscoli o sono onde? Sono corpuscoli localizzati in una clessidra? Possiamo misurare e sapere tutto di ogni singolo corpuscolo? I fisici ci dicono di no, non possiamo sapere tutto perché le particelle sono anche onde! Sono cicliche nel tempo! Non appartengono non ad un luogo a tutto lo spazio! Ma nel momento in cui ne scopriamo una, ne misuriamo un aspetto, l’onda “collassa”, la particella ridiventa corpuscolo!
    Quando, come fisico, penso a ciò che non ho capito, e cioè se le particelle elementari siano onde o corpuscoli, mi viene in mente l’immagine del folle di Nietzsche che grida al mercato del porto “Io cerco dio! Io cerco Dio!” ed i mercanti che gli rispondono “Pensi forse che si sia smarrito? Che stia facendo un viaggio per mare?” Beffandolo, in quanto dal suo comportamento, sembrerebbe sia Dio ad essersi perso come un bambino, e non lui, lui che forse ha “problema”, lui che non ha ancora capito nulla….

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