19. Nauplia e l’indipendenza greca

Tornata a Sparta e godutami l’ultima serata in questa accogliente città, puntai dritta su Nauplia. Anche in questo caso, riguardo al percorso in bus che dovevo affrontare quello che avevo letto sulle guide o in rete aveva dell’apocalittico. Tutti lamentavano che era giocoforza cambiare corriera a Tripoli, città nel centro del Peloponneso, non solo sprovvista di qualsivoglia attrazione, ma persino piena di degrado. Per non parlare del fatto che colà si correva il rischio di rimaner bloccati come minimo per una notte, perché le coincidenze erano molto carenti. 

Ma, forte dell’allenamento che avevo fatto in terra greca di non essere mai impaziente, ero decisa a prendere quello che il fato m’avrebbe riservato senza farmi venire patemi di sorta.

Invece, gli dei, una volta tanto, mi furono favorevoli e non solo mi trovai in una stazione d’autobus attrezzatissima e nuovissima, ma trovai pure un comodissimo minibus, che era stato allestito da poco e che, senza che dovessi aspettare più di tanto, mi portò velocemente a Nauplia.

Vi avverto che, per comodità, chiamo questa città nella sua versione italianizzata, mentre in neogreco si direbbe Náflplio, parola che pronuncio con un po’ di difficoltà, come sempre quando ho a che fare coi famigerati dittonghi eu o au  che si pronunciano o ev oppure ef, av oppure af con un criterio che mi resta misterioso.

Ma perché avevo scelto come meta proprio Nauplia?

Almeno per un paio di ragioni: la prima che l’avevo visitata trentatré anni addietro e ne conservavo un bel ricordo. La seconda che Nauplia ha una posizione assai strategica e consente di visitare in giornata vari siti archeologici, che o volevo rivedere (Micene e Tirinto) o non avevo ancora avuto modo di visitare (Epidauro).

Tuttavia il primo impatto non fu dei migliori: trovai la città sfigurata dal troppo turismo, con troppi ristoranti e troppi bar quasi ad ogni passo. Come se non bastasse, ero incappata, senza che lo avessi previsto, in un lungo ponte del calendario ortodosso: quello della loro Pentecoste, il che faceva sì che oltre ad una turba immane di turisti da tutto il globo, Nauplia fosse invasa anche da numerosissime famiglie greche in vacanza.

Mi si prospettavano, perciò, seri problemi per trovare alloggio, dato che, tanto per cambiare, non avevo prenotato. Anche in questo caso fui fortunata: puntai su una pensioncina, centralissima, che m’ispirava ed entrai subito nelle grazie della proprietaria. Costei aveva dei piccoli lavori di manutenzione in corso e avrebbe riaperto il suo alberghetto solo un paio di giorni dopo ma, se mi fossi adattata, era disposta a fare un’eccezione per me. Appurato che i lavori non fossero rumorosi, m’installai in una bellissima stanzetta, con un lettone d’epoca pieno di cuscini di seta color pastello e mi ci trattenni per vari giorni.

Cercai subito di riconciliarmi con la città, che in passato m’era garbata parecchio: cercai stradine meno frequentate per evitare la pazza folla e ritrovai quel volto di Nauplia che un tempo m’aveva colpito. Ritrovai il suo passato ottomano: qua e là, ad esempio, spuntava un piccolo edificio con la sua cupola che era stato un hammam, ossia un bagno turco.

Oppure m’imbattei in chiese, attualmente ortodosse, che un tempo erano state moschee.

Entrai molte volte nella chiesa più bella e suntuosa che Nauplia ha: la rilucente Panaghía (la Tuttasanta). Mi sedetti spesso là guardando lo spettacolo di Greci e soprattutto di Greche di ogni età, di ogni condizione, talora vestite in maniera assai provocante che vi sostavano in preghiera e accendevano dei ceri fissandoli sulla sabbia. Ovviamente, lo feci anch’io più volte, lasciando un cartiglio col nome dei miei cari nipoti, biologici e adottivi.

C’era anche un altro aspetto di Nauplia che non potevo trascurare che riguardava la sua storia soprattutto ottocentesca. Ebbene, Nauplia divenne la prima capitale della Grecia indipendente (1829-1834). E, riguardo a questo, la location da me scelta per alloggiare, nonché le sue immediate vicinanze, mi aiutarono non poco a farmi riflettere.

Dovete sapere che la mia pensioncina era situata all’interno di bellissimo palazzetto d’epoca, restaurato con grande buongusto. Gli interni alternavano l’antica pietra viva ad una profusione di legno scuro. Boiserie, questa, onnipresente: nelle pareti, nei pavimenti, nei soffitti e nelle scale e, ovviamente, negli infissi. E, tra parentesi, io ho un debole sia per la pietra viva, sia per il legno scuro, specie se annoso.

Sopra il piccolo bancone della reception campeggiava un ritratto d’epoca di un personaggio dallo sguardo magnetico.

Lo riconobbi subito e il fatto d’averlo riconosciuto rese ancora più gentile e disponibile nei miei riguardi la già gentilissima proprietaria.

Si tratta di Joannis Kapodístrias, che fu il primo presidente della Grecia indipendente.

Ora, dovete sapere che Fermor dedica molta parte del suo libro proprio alle lotte per l’indipendenza. Ma, essendo interessato soprattutto alla struttura tribale del Mani, nomina solo di sfuggita Kapodístrias, non dandogli tutto il rilievo che costui, a mio avviso, merita.

Molto colto (aveva tre lauree conseguite nell’Università di Padova) Kapodístrias era il rampollo di una nobile famiglia di Corfù. Essendo nato nel 1776, cioè prima del trattato di Campoformio (1797) che segnò la fine della Serenissima, era stato inizialmente cittadino veneziano. Sorvolo sui molti incarichi di governo che ebbe nella travagliata storia delle isole Ionie, perché voglio ricordarlo soprattutto come diplomatico di spicco, addirittura come plenipotenziario, alla corte degli zar. Kapodístrias si mise, infatti, al servizio della Russia (1809), sperando che questa potenza favorisse la lotta per l’indipendenza greca, cosa che sommamente gli stava a cuore. E così, una volta che gli zar, storici nemici dei sultani turchi, non favorirono più questa causa e addirittura si dichiararono ostili agli insorti elleni e filoelleni – tra questi, il più illustre è Lord Byron – Kapodístrias abbandonò la Russia e si stabilì in Svizzera (1822), sempre occupandosi attivamente dell’indipendenza greca. Da là fu richiamato dalla prima Assemblea Nazionale (1829) proprio a Nauplia come koubernétis.

E che c’entra il Mani? Mi chiederete. Beh, la rivolta colà aveva avuto la sua origine prestissimo (1821) per opera di un personaggio di spicco di una rispettatissima, potentissima e antica famiglia maniota, da sempre nemica dei Turchi. Mi ero già imbattuta in questo personaggio nella piazza centrale di Areopoli. Guardate di che razza di elemento si tratta.

Strenuo nemico degli Ottomani è vestito praticamente come un Turco! Battuta un po’ stupida, lo ammetto, perché era questa allora la foggia degli abiti manioti.

Il nome di tale bellicoso guerriero è Pétros Mavromikhális (1765-1848), cui persino i Turchi riconobbero il ruolo di bey del Mani. Ebbene, Kapodístrias, che non riusciva a trovare un accordo con costui, lo fece imprigionare e questo gli fu fatale perché fu ammazzato in una faida dal fratello e dal nipote di Petrobey. Per la cronaca, quando la repubblica ellenica fu archiviata, Pétros Mavromikhális divenne senatore del regno di re Ottone. Che poi i Manioti, in generale, abbiano grandi simpatie monarchiche, ce lo testimonia sempre Fermor.

Molte coincidenze si addensavano sul mio alloggio a Nauplia, non solo dimoravo – come scoprii molto presto – nel palazzo d un amico di Kapodístrias, ma ero addirittura a pochi passi dal luogo dove costui era stato assassinato.

Il vile attentato s’era svolto (1831), infatti, nella vicinissima chiesa di San Spiridione, dove lo sventurato primo presidente greco stava per fare ingresso. La cosa che mi fece una certa impressione fu un riquadro di vetro – le foto che tentai di fare vennero sfocate e le eliminai – sulla parte esterna della chiesa, riquadro che incorniciava i fori delle pallottole attentatrici.

Io ero costretta a passare davanti ad un simile macabro memento varie volte al giorno e spesso scoprivo famigliole greche in vacanza a Nauplia che si facevano fotografare tutte raccolte, con grande rispetto, intorno a quella teca commemorativa.

Kapodístrias, insomma, cui fu dedicata una delle università di Atene, quella più antica (1837), è ancora molto vivo nel ricordo e nell’ammirazione dei Greci contemporanei.

Dato che mi capitava di recarmi, nottetempo, nell’androne d’ingresso del mio albergo, che fungeva sia da salotto sia da cucina, a prendere nel frigo dell’acqua ghiacciata, che la proprietaria metteva con generosità a mia disposizione, fui più volte in difficoltà.

La pensioncina, dove ero l’unica a dormire, era illuminata al suo interno, durante le ore piccole, da una fioca luce e questo rendeva alquanto spettrale l’atmosfera.

Ma più spettrale d’ogni altra cosa era il ritratto di Kapodístrias che, grazie ad uno strategico faretto che lo rendeva ancora più pallido e cadaverico, aveva tutta l’aria di rivolgermi uno sguardo indagatore. Complice la poca luce e complici i gradini tirati troppo lucido, una volta feci un bel capitombolo e mi parve che costui salutasse, con un sorriso aristocratico quanto beffardo, la mia goffaggine. Mi ci volle qualche momento per riprendermi dalla botta e da una montante inquietudine. 

Abbeverata, ma ancora ammaccata e tremante, stavo guadagnando lesta il ligneo corridoio davanti alla mia camera, quando all’improvviso, una porta si spalancò. E mi si parò dinanzi una cerea vecchina, abbigliata con una camiciona da notte che sembrava risalire all’ellenica guerra di indipendenza. E io che credevo di essere la sola a dormire nel palazzo! Così, del resto, m’era stato assicurato.

Per fortuna, avendola vista il giorno prima nel salone mentre ricamava ed essendole stata anche presentata, riconobbi l’apparizione come l’anziana madre della proprietaria.

Il bello è che dovetti pure rassicurare la vegliarda – io che stavo come stavo – che andava tutto bene, nonché chiederle scusa per il fracasso notturno.    

20. Epidauro: un teatro tutto per me!

La prima volta che ero stata a Nauplia, durante una visita lampo in Grecia, occupata quasi tutta da un soggiorno ad Atene e solo da una toccata e fuga nel nord-est del Peloponneso, molto m’ero rammaricata di non aver avuto il tempo per visitare Epidauro. Ebbene, questa volta mi proponevo di rimediare.

La proprietaria della pensione mi avvertì, preoccupata, che quel giorno era previsto un violento acquazzone e mi consigliò di rimandare. Ma ero io troppo impaziente, dopo trent’anni e passa, di vedere il teatro più famoso dell’Antichità. Rassicurai la signora che ero munita di ombrello e di che coprirmi e partii. Mi accorsi subito che molti turisti erano ottimisti riguardo alle condizioni atmosferiche della giornata ed affollavano il bus che dovevo prendere.

Malignamente notai pure che, in prevalenza nordici, erano vestiti molto leggeri, per lo più con braccia e polpacci scoperti.

In ogni caso, i turisti erano in numero infinitamente inferiore di quanto possa accadere in piena estate, come mi avevano testimoniato vari amici che lamentavano di non essersi potuti godere quel teatro perché tutte le gradinate erano strapiene di gente.

Mi affrettai a guadagnare la parte superiore del teatro: volevo, insomma, ammirare dall’alto il piccolo colonnato laterale da dove facevano ingresso gli attori, la grande orchestra circolare dove si scatenava il coro e la scena, sul cui margine si muovevano gli attori.

Avevo in petto un batticuore che non riuscivo a contenere e andavo immaginandomi la rappresentazione di questa o quella tragedia che più amavo.

Nel frattempo Zeus, dall’alto, guardava con sprezzo i mortali e preparava sulle loro teste un cielo sempre più cupo e carico di nubi nere come la pece. Eppure, questa volta, non mi sentii colpita dall’invidia degli dei, piuttosto avvertii gli Immortali come miei alleati.

Scoppiò, poco dopo, un temporale d’inaudita potenza con fulmini e tuoni davvero agghiaccianti. Si ebbe, allora, un fuggi fuggi generale, in cui i turisti corsero a precipizio starnazzando giù per le gradinate. Io guardavo i ritardatari, quei pochi che erano resistiti fino a quel momento, andarsene anch’essi.

Trovai un precario riparo sotto le sparute fronde di uno degli alberelli che orlavano i gradini più elevati, mentre anche i Tedeschi più anziani e più agguerriti erano costretti a battere in ritirata. 

Nonostante l’ombrello e l’ampia giacca a vento che mi arrivava a metà delle cosce, presto fui completamente zuppa. Tuttavia, non mi mossi dalla mia postazione se non dopo un bel po’ ch’ero rimasta l’unica visitatrice.

Vedete i turisti, i pochi non ancora fuggiti a ripararsi nei bar? Sono quei puntolini sotto gli alberi.

Beh, la soddisfazione di esser sola a presidiare lo splendido teatro e poterne ammirare l’eleganza della struttura senza che nessun umano la svilisse, è cosa difficilmente esprimibile.

Poi, all’ennesima scarica di sternuti – temendo di buscarmi una polmonite, anche perché s’era levato un vento oltremodo gelido – mi decisi a malincuore a scendere i gradini.

Asclepio, dio della medicina, cui era dedicato il teatro, mi fu amico e mi premiò provvedendo che, pur delicatina come sono, non m’ammalassi.

21. La Porta dei Leoni e mura megalitiche: Micene e Tirinto

In un primo momento, avendo soddisfatto con estrema goduria la mia brama di vedere Epidauro, avevo deciso di non andare a Micene e Tirinto, che già avevo visitato e che ricordavo assai vividamente. Non me la sentivo, insomma, di essere intruppata in un’orda di turisti, che data l’enorme fama soprattutto di Micene, mi sarei dovuta sicuramente subire. 

Avevo, infatti, visitato le rovine della città degli Atridi quando erano ancora in uno stato di semiabbandono e, ad un certo punto, ad arrampicarmi sulle rovine, all’epoca piene di erbacce, ero rimasta solo io e un mio amico: la corriera, con pochi altri turisti, era bellamente ripartita e io non me ne ero per niente accorta. Conclusione, andai a piedi fino a valle in cerca di un mezzo di trasporto e, essendo già l’inizio di giugno, ad un’ora meridiana, in un’epoca in cui i cambiamenti climatici erano ancora inimmaginabili, mi beccai un gran colpo di sole e passai il giorno dopo in preda a brividi violenti.

Ma poi prevalse il desiderio di rivedere, probabilmente per l’ultima volta in vita mia, quella magica entrata alla cittadella.

Ecco la famosissima Porta dei Leoni, che, a ben guardare, sono delle leonesse, purtroppo acefale. Vi assicuro, che ebbi il mio bel da fare per approntare una foto dove non comparisse anche qualche tripputa turista nordica o qualche altro umano in genere.

Come potete vedere, l’accesso alla porta, ma anche l’intero del sito, ha una pavimentazione lignea per permettere a chiunque abbia problemi di deambulazione di accedervi. E questo toglie parecchia atmosfera alla cittadella anche se, lo ammetto, la rende più facilmente percorribile. Ecco, erano innovazioni come queste, che peraltro sono civilissime, quelle che temevo m’innervosissero, tuttavia, lo charme di quella porta resta per fortuna intatto.

Non avendo nessuna voglia di accalcarmi, assieme ad una marea di persone, nelle tombe dette a thólos, ossia a cupola, che peraltro sono le meno antiche (XII sec. a. C.), circolari che il grande Schliemann disseppellì per prime tra il 1874-76. Colà trovò ben diciannove scheletri, letteralmente coperti d’oro. E Schliemann s’illuse d’aver scoperto, tra l’altro, l’aurea maschera funeraria di Agamennone.

Sto alludendo a quella famosa maschera mortuaria lavorata a sbalzo, che son sicura quasi tutti voi avete presente: quella con le grandi orecchie a sventola, le labbra sottili e pure dei baffi, maschera che, per la cronaca, attualmente si trova al Museo Archeologico di Atene.

Sorvolo sugli anacronismi in cui Schliemann incappò, essendo tutti resti databili circa nel sedicesimo secolo a. C., quindi, troppo presto per la presunta epoca in cui regnò Agamennone. Enorme era entusiasmo di Schliemann e io non mi sento affatto di dileggiarlo. Fosse l’umanità ricca di uomini come lui! Autodidatti, magari un po’ avventurieri, ma geniali visionari.

Vi propongo, perciò, solo questa gloriosa tomba circolare, che si trova sulla destra, appena varcata la Porta dei Leoni.

Altre foto non volli più scattare: troppa gente tra le rovine.

Salii verso la cima della collina, per rendermi conto – cosa che nella prima visita non avevo potuto fare – della pianta del palazzo dell’ ánax miceneo. Attualmente è visibilissima la sala del trono col suo il focolare centrale.

E, se volete rifrescarvi a questo proposito la memoria, andate alle foto che scattai a Pýlos.

Feci anche una rapida visita al Museo Archeologico di Micene, allestito abbastanza di recente (2003), che “ai miei tempi” non esisteva. Ovviamente lo trovai, se fosse stato possibile, ancor più affollato degli scavi, sicché guardai di volata i tantissimi preziosissimi oggetti ivi contenuti.

Mi soffermai un po’ di più sulle foto che ritraevano i vari componenti delle tante missioni archeologiche che qui s’erano avvicendate dopo Schliemann.

E qui lo vidi! Chi? Mi chiederete. Ebbene, ho una grande ammirazione per Michael Ventris (1922-1956). Era costui il figlio di un alto ufficiale di sua maestà britannica e, quindi, nel salotto del padre, ebbe modo di conoscere vari studiosi di spicco. Tra questi Arthur Evans (1851-1941): l’illustre archeologo che aveva diseppellito Cnosso a Creta (1900-1935). Ebbene, Ventris, poco più che bambino, venne a sapere dell’incapacità degli studiosi di decifrare la Lineare B.

Per la cronaca, è una scrittura sillabica, che precede quella alfabetica, ma che risultò, una volta decrittata, essere una forma arcaica della lingua greca.

E adesso capite meglio il mio attacco di entusiasmo nel piccolo museo di Pýlos davanti alle tavolette di Lineare B, che stavo vedendo allora dal vivo per la prima volta.

Insomma, che cosa si mette in testa quel bimbo inglese? Dichiara che lui ce la farà a decifrare quella misteriosa scrittura. E, dopo averci dedicato anni, finalmente ce la fece nel 1952.

Morì in un incidente automobilistico, quattro anni dopo: nel 1956.

Beh, la fine prematura e per di più in circostanze banali, di un paio di studiosi del secolo scorso che stimo oltremodo, mi ha sempre acerbamente colpito. Uno è Ventris e l’altro è Milman Parry (1902-1935): ossia colui che dimostrò, con una serie di registrazioni fatte negli anni trenta, nel cuore di Balcani, la nascita orale dei poemi omerici. (cfr. Nascita dell’Odissea)

Ma torniamo a Ventris. In una teca del museo di Micene vidi una sbiadita foto di quel genio, ritratto mentre reggeva in mano una tavoletta con tanto di Lineare B. Ora, di foto con questo medesimo soggetto se ne trovano facilmente in rete, ma questa era diversa. Mentre nei repertori di Wikipedia Ventris è immortalato tutto bello pettinatino, con un’abbondante dose di brillantina, nella foto che vidi a Micene, era assai scapigliato con un gran ciuffo che gli ricadeva scompostamente sulla fronte. E, nonostante le foto di quell’epoca regalassero in genere troppa maturità ai soggetti ritratti, appariva non un uomo e neppure un ragazzo bensì un adolescente. L’espressione, poi, era ultraconcentrata, come se si mangiasse con gli occhi la tavoletta. Sicuramente si trattava di un’istantanea. E che istantanea!

Al che, immaginate già quello che feci, stramaledicendo la luce sfavorevolissima, i soliti detestabili faretti, le perfide aberrazioni provocate dai vetri della teca: mi scatenai in una marea di scatti. Impaziente al sommo grado, feci poi quello che non bisogna mai fare: mi sedetti su di una sedia del museo e guardai con crescente insofferenza le bruttissime foto che stavano nel mio cellulare. E, da perfetta stupida, mi misi a cancellarle furibonda una dopo l’altra, anche perché avevo deciso che solo una foto era vagamente passabile. Ebbene, nella mia foga di distruzione, le cancellai tutte, anche quella prescelta!

Sto ancora piangendo amaramente la mia imperdonabile e precipitosa sventatezza.

Il mio furore si riversò su un oggetto di nessuna importanza, con cui non è una cosa intelligente prendersela. Mi ero seduta non distante da un ripiano dove stava aperto un librone in cui i visitatori del museo vergavano i loro commenti. Ovviamente, erano uno più idiota dell’altro e i Beautiful, i Wonderful e gli Schön e i Wunderbar erano un ritornello ossessivo corredato da una profusione di enfatici punti esclamativi.

Ebbene, sapete che, feci? Scrissi un velenoso commento, redatto in un idioma misto tra greco antico e neogreco in cui deprecavo che in quel museo non ci fosse nemmeno una didascalia dedicata a spiegare al pubblico la capitale importanza della scoperta di Ventris: che se ne vergognassero!

In poche parole, reagii come una zitella isterica.

Dopodiché abbandonai in tutta fretta quel museo, dove avrei dovuto guardare ancora un sacco di oggetti preziosi. 

Tornata in bus, avendo un diavolo per capello, volli scendere a Tirinto, convinta che là nessuno dei turisti si sarebbe fermato, perché si tratta di una città coeva a Micene, ma molto meno frequentata.

Mi seguì solo un minuscolo, anziano Giapponese, persona garbatissima, ma che s’era messo in testa che io fossi una studiosa di archeologia in grado di soddisfare ogni sua curiosità in materia.

Comunicammo in inglese e il mio, che è scarsissimo, era un inglese di Oxford in confronto al suo: non dico altro…

Mi rassegnai a fargli da guida e gli mostai le mura megalitiche ancora più colossali di quelle di Micene.

Con il piccolo nipponico varcai, non senza un po’ di esitazione, una delle porte di un muro che aveva ben otto metri di spessore. Intanto gli andavo spiegando, non chiedetemi come, che i Greci allora non conoscevano l’arco, ma solo questa struttura ad angolo.

Gli mostrai anche la royal chamber – mi espressi così, probabilmente in maniera discutibile, ma lui diede segno di capire – visto che anche qui c’era un mégaron.

Condividemmo un taxi per tornare a Nauplia ma, a quel punto, avevo esaurito la mia dose quotidiana di socievolezza, oltre al fatto che il mio inglese gridava vendetta alle mie stesse orecchie, perciò, con una scusa, scesi un po’ prima del centro della città e non rividi più il piccolo Giapponese.

22. Le fortezze di Nauplia

Ci sono svariate cose da vedere a Nauplia: vi è un museo molto ben allestito dove si possono ammirare reperti micenei e altri ancora più antichi; non manca poi un interessante museo dell’abbigliamento, dove vidi addirittura un manichino vestito con un sobrio ed elegante completo indossato da Kapodístrias… beh sì, costui mi ha un po’ perseguitato e ossessionato per tutto il tempo che rimasi in quella città…

Ma la cosa più stimolante da visitare sono le fortezze. Cominciamo dalla più piccina, che si trova in un isolotto nello splendido golfo che corona su più lati Nauplia, la cui vastità e le cui impreviste articolazioni io non posso nemmeno farvi immaginare perché mi ci sarebbe voluto un fior di grand’angolo.

Si tratta di una fortezza, che i Turchi chiamarono Bourtizi (castello del mare), che era stata costruita nel quindicesimo secolo dai Veneziani e che, per un periodo, fu sede del boia – che orrore! – della città. L’avevo visitata più di trent’anni fa e nutrivo un gran desiderio di rifarlo, anche per ammirare la città da un’altra prospettiva, ma purtroppo devo vivere di ricordi. Infatti, la barchetta che portava in quel gioiellino di castello salpava solo se vi fossero almeno cinque o sei persone a bordo e tale numero non si totalizzava mai.

Vi è poi una fortezza facilmente raggiungibile a piedi che si chiama Acronauplia (tredicesimo secolo, opera dei soliti Franchi), che, tra l’altro, non era nemmeno lontana dalla mia pensioncina. Per la cronaca, Acronauplia corrisponde all’insediamento più antico della città e vi furono rinvenute tracce risalenti addirittura al Paleolitico.

Guardate com’è fascinosa mentre, di notte, l’orologio, che la adorna, scruta la città come un grande occhio luminoso!

Ma sapevo io che il vero cimento che mi aspettava al varco era un’altra fortezza: quella di Palamídi, raggiungibile dopo 999 gradini, distribuiti in varie scalinate, una più erta dell’altra.

Dovete sapere che questa fortezza prende il suo nome da un personaggio che i poemi omerici snobbano: Palamede, inventore, tra l’altro, della scrittura. Costui era probabilmente più astuto di Ulisse e, secondo certe leggende, fu eliminato da Ulisse stesso che l’accusò ingiustamente di tradimento, durante la guerra di Troia. Insomma, conquistare questa fortezza significava per me anche un doveroso omaggio a questo eroe così bistrattato.

L’avevo già espugnata, sempre la prima volta che ero stata a Nauplia, e il mio cuore, deboluccio fin dalla nascita, era pur sempre quello di una trentacinquenne. Inoltre, allora, non ero sola: mi faceva compagnia, in tale viaggetto, quel mio amico dell’epoca, in grado di sostenermi durante le mie crisi di vertigini, che allora erano comunque meno drammatiche.

Invano la proprietaria della pensioncina cercò di dissuadermi, definendo l’impresa un ephiáltes – un incubo – e più costei adduceva argomenti, del resto ragionevolissimi, per farmi cambiare idea, più io mi intestardivo che volevo provarci. Dopo una serie di discussioni, cedetti almeno in parte, sicché decisi che sarei salita in taxi grazie ad una strada carrozzabile che arriva proprio alle mura di cinta della fortezza e, una volta là, avrei deciso se scendere con le mie gambe oppure se prendere un altro taxi per il ritorno. In ogni caso, avrei potuto fare un giro panoramico tra i poderosi e vastissimi bastioni e mi sarei goduta il grandioso spettacolo del golfo dell’Argolide.

Mai decisione, quella di scendere a piedi, si rivelò più imprudente e folle. E me ne resi conto non appena varcai, in direzione dell’abisso, la porta sovrastata dal glorioso leone di San Marco. Sì, perché Palamídi era stata edificata durante l’ultima dominazione veneziana su Nauplia, ossia tra il 1687 e il 1715: prima che fosse riconquistata dai Turchi.

Poco da fare: le crisi di vertigini furono devastanti e continue. Durante una delle prime, mentre lo stomaco mi si contraeva come se fosse stretto in un pugno, scattai l’ultima foto della giornata.

Mi ero già un poco avvicinata al livello di Acronauplia, che vedete con tanto, purtroppo, di ecomostro di cemento nelle vicinanze. Ma ero ancora troppo in alto.

Ero partita per tempo e il resto della mattinata lo passai in una situazione insostenibile: troppo tardi per risalire – perché nemmeno quello sarei più riuscita a fare – e incapace di continuare a scendere.

Come se non bastasse, si era scatenato un vento feroce che rendeva ancora più instabile il mio, già precario, equilibrio.

Va detto a totale mio disdoro che tutta la mia sete di autosufficienza, tutto il mio self control, va miseramente in frantumi ogni volta che mi si scatena il panico da vertigini. Mi siedo agghiacciata dopo pochi gradini e faccio soste interminabili, poi tento di risollevarmi, mi faccio forza, scendo ancora qualche gradino e, poco dopo, torno a sedermi per un’altra vita. E i gradini di Palamídi erano decisamente troppi!

In tutto questo, chi mi sorpassava generalmente non si preoccupava affatto del mio stato, che tentavo in qualche modo di dissimulare a meno che… a meno che non fossi interpellata direttamente da un turista gentile di turno – in genere o erano Iberici o Greci – cui, alla domanda, di solito in inglese, di rito: “Tutto OK?”, rispondevo con sincerità: “Noooo!”. Al che, il misericordioso si offriva di darmi il braccio per scendere.

Il buffo della faccenda è che, in situazioni simili, non mi occorre nemmeno il braccio: basta che il soccorritore si metta davanti a me in modo che io non veda il vuoto, mi basta posare leggermente una mia mano sulla sua spalla e subito ripiglio rifrancata a scendere.

Ovviamente, non potevo abusare dell’altrui disponibilità per troppo tempo e, dopo una decina di metri, dichiaravo che stavo già meglio – cosa falsissima! – e che me la sarei cavata da sola… e, di lì a poco, tornavo a sedermi.

Intanto gli dei tutti se la ridevano alla grande e mi spiegavano che ero incorsa in un caso da manuale di hýbris: di arrogante tracotanza e che era bene che ammettessi non solo la mia pochezza, ma promettessi loro che era l’ultima volta che mi mettevo una situazione simile, oltre tutto maledettamente ridicola. Ebbene, lo promisi e spero di mantenere questa promessa.

Commiato… per il momento…

È sempre difficile concludere un viaggio e, quando si tratta della Grecia, lo è in particolar modo. Anche perché, se si è dei fanatici dell’Odissea, la Grecia diventa la vera meta del nóstos, ossia del ritorno per eccellenza.

Sicché succede che dalla Grecia si parta col pensiero fisso di poterci tornare al più presto.

E adesso, vi devo confessare che v’ho mentito riguardo al titolo del réportage che state ora leggendo: Patrasso, solo andata è un titolo che suona maledettamente bene, ma corrisponde più al mio desiderio che a quello che mi trovai poi a fare.

Insomma, già quando stavo per lasciare il Mani, telefonai ad una agenzia di viaggi di Padova, su cui posso contare, e mi feci prenotare un biglietto da Patrasso per Venezia, sempre via mare, ovviamente.

Le mie risorse finanziarie e soprattutto la mia resistenza fisica non vanno sopravvalutate, ahimè.

Così, raggiunta con sorprendente facilità Patrasso grazie ad un paio di efficientissimi bus, con un solo cambio a Corinto, m’imbarcai con la prospettiva di passare ben due notti in nave.

Lo so che una tale prospettiva in genere terrorizza le persone “normali”, ma a me, che tanto normale non sono, questo programma attirava parecchio. L’unica cosa che mi seccava, come sempre del resto in questo viaggio, era l’assoluta e lancinante mancanza di libri, carenza che, nelle lunghe ore a bordo, temevo si sarebbe fatta sentire più acerbamente.

Tuttavia, una volta tanto, gli dei non mi furono avversi, bensì decisamente benigni, procurandomi un inaspettato quanto piacevole incontro. In breve, m’imbattei in un ex-fotografo professionista, un sincero innamorato della Grecia, cui faceva ritorno almeno due volte l’anno. E, per poterselo permettere, era disposto anche a viaggiare piuttosto in economia, dormendo a bordo della sua annosa vettura.

Come se non bastasse, costui aveva più volte dimorato in un luogo da me assai agognato, ma irrimediabilmente proibito: il monte Athos!

A nulla mi giova, infatti, aver letto e studiato la spiritualità e le imprese degli antichi Padri del Deserto, perché sono una donna e a questo – poco da fare! – non v’è rimedio…

Ebbene, l’esperienza che questo viaggiatore aveva fatto dell’Athos non solo lo aveva reso profondamente felice, ma si era impressa per sempre nella sua psykhé, dandogli un nuovo modo di intendere la vita.

Per capirci, l’Athos era stato, e continuava ad essere per lui qualcosa di analogo a quello che per me è stato, e per sempre sarà, il Cammino di Santiago.

Mi raccontò anche di altre isole dell’Egeo, che non avrò mai tempo e vita di visitare, mentre io gli narravo di Itaca e del Peloponneso. Per un caso, non aveva ancora messo piede nel Mani e non mi parve vero magnificarglielo.

Insomma, quelle quaranta ore di traversata passarono veloci e fu un fine viaggio ideale, se non fosse che entrambi eravamo assai dispiaciuti di tornare nel cosiddetto “mondo di tutti i giorni”. Un mondo sempre più incivile, che ad entrambi ripugnava e ripugna.

E intanto ognuno dei due faceva già progetti per il prossimo viaggio: lui il Peloponneso e Citera, io Creta.

Eh sì, perché, dopo qualche assaggio della civiltà micenea ad Itaca e dopo averla lungamente assaporata nel Peloponneso, sento sempre più prepotente il richiamo di qualcosa che non esiste, se non nella phantasía, ma che sempre ci attira come in un gorgo: l’ORIGINE.

L’origine minoica, in questo caso… e chi vivrà vedrà…