14. Verso Sparta

Dopo aver lasciato, con immenso dispiacere la pacificante Gheroliménas, risalii in autobus il Mani, feci una breve sosta ad Areópoli – questa volta, senza nessun incidente – puntando dritta su Ghýthion, che si trova sul versante nord-est della penisola.

Fermor arriva a Ghýthion via mare e mostra d’avere davvero un debole per questa cittadina, cui dedica giusto le pagine finali del suo Mani; ebbene, a quelle pagine rimando chi di voi voglia sapere proprio tutto della storia del porto di Sparta: i suoi antichi splendori, la decadenza, la sua rinascita in epoca ottomana e ancora dopo.

Altrettanto suggestive sono le pennellate con cui l’Inglese descrive il coreografico passeggio serale degli abitanti in una Ghýthion ancora arcaica, quale era negli anni quaranta. 

Scesa dal bus direttamente sul bel lungomare, trovai facilmente da dormire in un albergo vicinissimo a quello – divenuto oggi troppo chic per le mie tasche – dove alloggiò Fermor.

Vedete il marciapiede vicino all’acqua? Beh, è ancora lucido per la recentissima pioggia, una delle tante che mi beccai durante tutto il viaggio.

Anche questa volta, ero l’unica cliente dell’hotel: la giovane proprietaria me ne consegnò addirittura le chiavi e si dileguò. Amici, cui raccontai in seguito tale circostanza, suggestionati da vari film dell’orrore, mi chiesero se la cosa non mi mettesse ansia. Sinceramente no: non perché io sia un mostro di coraggio, ma il fatto è che in Grecia mi sento in una botte di ferro.

Quanto all’isoletta della prima notte d’amore di Elena e Paride, sempre Fermor viene a sapere per caso, chiacchierando con un cameriere d’un caffè – anche allora, come ora, i camerieri erano, e sono, assai ferrati in mitologia e leggende locali – che si tratta di Kranae. E l’ultimissima pagina del libro si chiude sul suo gioioso stupore nell’aver finalmente scoperto dove si trovava quella località, che lui conosceva già da una lettura attenta dell’Odissea e che, fino a quel momento, non sapeva proprio dove ubicare.

Un’ultima notazione sulla storia dei due amanti: vorrei che chi ora mi legge pensasse, come faccio spesso io, ad un esilarante brano della Belle Hélène (1864) del grandissimo Offenbach. Si tratta del comicissimo couplet des rois, in cui i re più famosi dell’Iliade sfilano e si presentano con boria smisurata. In particolare, è irresistibile come si pavoneggia il marito della donna più bella del mondo: “Je suis l’époux de la reine, l’epoux de la reine, le roi Ménélas!”.

Ebbene, siccome non posso affatto pretendere che tutti siano, come me, fanatici di Offenbach, se volete farvi due sane risate, eccolo qui:

A Ghýthion, sostai anch’io con grande piacere e, una volta tanto, fui d’accordo con la guida Routard che mi segnalava come imperdibile una popolare bettola, ben nascosta in una viuzza del centro: il Tripléte. Là, per un prezzo assolutamente ridicolo da quanto era basso, gustai in mezzo a straccioni, ma anche anziani signori più ben vestiti – stranieri: zero! – la tripla specialità della casa: un’enorme fetta di pita impanata e fritta con sopra uno spiedino di carne di maiale, più un pezzo di gustoso formaggio stagionato. Una cosetta leggera! Per tentare di digerirla, ci bevetti sopra un quartino di un ottimo vinello rosato e ghiacciato, bevanda che non è mai presente nei menu – parlo di quelli dei ristoranti – ma che avevo notato come fosse prediletta dagli abitanti del Mani e anche dell’intera Lakonía.

Guardate che atmosfera d’altri tempi.

Ero troppo beata a Ghýthion e insieme troppo desiderosa di arrivare a Sparta e soprattutto nella vicina Mystrás, le cui magnificenze bizantine mi attiravano da tempo, per non subire l’ennesimo colpo basso dell’invidia divina.

Accadde la mattina successiva. Il conducente del bus m’aveva fatta scendere su mia richiesta sul lungomare, e l’aveva fatto per usarmi una gentilezza senza che là vi fosse una fermata vera e propria. L’indomani, perciò, non mi fu facile scoprire dove avrei trovato una corriera per Sparta, perché ricevevo informazioni contradittorie e intanto il tempo passava.

Ad un certo punto, un’anziana signora m’ingiunse imperiosa: “Dróme! Dróme!”. A questo invito perentorio a darmi una mossa, mi misi a correre, in effetti, la sagoma di un leoforío si cominciava a stagliare in lontananza. Temendo che il mezzo non mi aspettasse, accelerai di gran carriera e, sul bordo di un marciapiede che confinava con un giardinetto, misi un piede in fallo in una buca ben mascherata dal tappeto erboso.

Tra le mie molte inadeguatezze fisiche, non figurano le caviglie fragili, tuttavia, quella volta mi ritrovai con un’attaccatura del piede che mi faceva un male infernale.

Tutte le guide che avevo letto e vari resoconti in rete tendono a denigrare Sparta come una città moderna priva di qualsiasi attrattiva. Invece, a me è piaciuta molto, tanto che mi ci trattenni per più giorni, mentre è difficile che i turisti ci si fermino più di una notte.

È pur vero che fu rifondata solo nel 1834 dal giovanissimo Ottone, primo re della Grecia moderna, ma i criteri con cui venne concepita non mi dispiacciono per nulla: ampi viali, presenza del verde, vaste e accoglienti piazze. Inoltre, vi sono altre caratteristiche che me la rendono parecchio simpatica. Innanzi tutto gli abitanti, che contravvengono a vari stereotipi sugli antichi Spartani, primo tra tutti quello, per me respingente, di essere gente di un’austerità devastante. Di certo, non mi aspettavo una popolazione così gaudente tutta in strada fino alle ore piccole, davvero una grande movida! Popolazione niente affatto laconica, bensì conversevole e per giunta gentilissima: mai mi riuscì di pagare il vinello rosato che prendevo come aperitivo, in qualche baretto popolare, perché mi veniva immancabilmente offerto. 

Anche gli zingari, che son considerati un problema a Sparta – in effetti, se ne vedono parecchi in giro – si mostrarono gentili con me. Sentite qua: venni redarguita da una giovanissima Rom, con sottanone fino a terra e completamente sprovvista degli incisivi, il che rendeva il suo velocissimo eloquio non immediatamente comprensibile, ma, per fortuna, la ragazza era dotata di una gestualità eloquente. Ebbene, costei mi rimproverò perché, mi ero messa a sedere, in un elegante caffè, scegliendo un tavolino troppo esterno. Indicò poi con riprovazione il mio zainetto, che, a suo dire non dovevo sistemare su di un’altra sedia, bensì tenere ben stretto in grembo. Insomma, che mi rendessi conto che in giro c’erano molti ghitáni con cattive intenzioni – lei esclusa, ovviamente – che potevano derubare gli stranieri inesperti come me! La ringraziai e le diedi l’obolo che si meritava.

Memore di questo monito, detti retta ad uno analogo del proprietario del mio hotel – un anziano signore garbatissimo e dai modi ironici e aristocratici – che mi sconsigliò di andare in cerca dei resti del tempio di Artemide Órthia. Questa dea, oltre a scorrazzare per il vicino e incombente Taighétos, è fin dai tempi più remoti il nume tutelare della città. Le rovine che mi interessavano erano seminascoste dalle erbacce, mi assicurò il mio ospite e, soprattutto, erano in una parte malfrequentata della periferia.

Al che, una volta tanto, preferii non rischiare.

Del resto avevo altre cose da vedere a Sparta. Siccome la caviglia era molto dolorante, risolsi di visitare in due rounds Mystrás. Vi dedicai il primo pomeriggio spartano e poi, visto che la storta peggiorava, mi rassegnai a rimanere per ore e ore col piede sotto ghiaccio, di cui il  proprietario dell’albergo mi riforniva ogni tanto con sollecitudine.

Ripresi la visita di Mystrás solo due giorni dopo e, nel periodo di riposo, mi dedicai esclusivamente al piccolo, ma preziosissimo museo di arte antica, completamente negletto dai turisti.

15. Elena for ever

Avete già ascoltato le couplet des rois de La belle Hélène? Me lo auguro, perché alla più bella tra le donne e al suo caro consorte son dedicati alcuni pezzi (per lo più provenienti da Artemide Órthia) che ora si trovano nel museo di Sparta. Ora, l’Elena, che qui viene celebrata, non è quella infedele, bensì quella legata dai sacri vincoli del matrimonio. Si tratta proprio di quell’Elena che Telemaco incontra nella seconda ed ultima città che visita, nella sua ricerca di notizie sul padre: Sparta, per l’appunto.

Per la cronaca, Menelao, nel quarto libro dell’Odissea, mostra d’aver bonariamente perdonato la decennale scappatella della consorte. In questo caso, inoltre, l’Atride ci fa una figura assai migliore di quanto non gli capiterà in seguito in varie tragedie, prima fra tutte, l’Elena di Euripide, dove suscita l’ilarità del pubblico mostrandosi un fesso patentato.

Tuttavia, anche nell’Odissea Elena grandeggia su Menelao assumendo le sembianze più di una dea che di una comune mortale.

Ma andiamo per ordine e prendiamola alla larga, dalla famiglia di Elena: ecco un arcaico (VI sec. a. C.) bassorilievo, che raffigura i suoi due fratelli guerrieri: i famosi gemelli Dioscuri.

Adesso vi faccio vedere un altro bassorilievo, sempre della medesima epoca, che ritrae i due sposi: Menelao ed Elena, dove il primo assume un’aria piuttosto protettiva nei confronti della seconda.

Ma siamo sicuri che un simile atteggiamento, che sconfina in una certa ostentazione di superiorità, fosse giustificato da quello che ci vien narrato nell’Odissea? A me pare proprio di no: Elena, ad esempio, a differenza del marito, si mostra capace di trarre auspicio dal volo degli uccelli (Od. XV, 160-173) e sa pronunciare una profezia favorevole per il ritorno di Ulisse. Sempre Elena, riconosce per prima Telemaco come somigliante al padre (Ulisse) e Menelao, per non fare una brutta figura, si dichiara subito d’accordo con lei (Od. IV, 138-154).

Dovete, infatti, sapere che nel mondo omerico, gli ospiti prima vengono rifocillati, bagno compreso, e solo dopo si domanda loro chi essi siano. Così fa Alcinoo, re dei Feaci, con Ulisse, Nestore con Telemaco (Od. III, 60-74, Menelao con Telemaco e il figlio di Nestore, Pisistrato (Od. IV, 35-64).

Questo era il magnifico senso di ospitalità dei Greci arcaici… ma basta così altrimenti finisce che dico cose che potrebbero sembrare retoriche, ma sono solo originate dallo schifo per quanto sia caduto basso il mondo contemporaneo (Greci di oggi esclusi), così squallidamente xenofobo, ossia così poco amante degli ospiti…

Dicevo, Elena, che tra parentesi viene paragonata ad Artemide (Od. IV, 121-122), riconosce subito Telemaco e, dopo che tutti si sono profondamente commossi sulle incerte sorti di Ulisse, l’unico che non abbia ancora fatto ritorno da Troia, ecco che lei interviene in maniera decisiva e sorprendente, ripristinando il buonumore. Sentite qua cosa escogita Elena; ve lo faccio gustare nella bella traduzione di Maria Grazia Ciani:

 

Ad altro pensò Elena, figlia di Zeus: nel vino che essi bevevano gettò rapida un farmaco che placava furore e dolore, che faceva dimenticare ogni pena. Chi lo inghiottiva, disciolto nel vino, per un giorno intero non avrebbe versato una lacrima, neppure se gli fossero morti il padre e la madre, o se davanti ai suoi occhi gli avessero abbattuto con l’asta un figlio o un fratello. Questi famaci aveva la figlia di Zeus, efficaci, potenti, che a lei donò la sposa di Tone, Polidamna l’Egizia. (Od. IV, 219-229).

 

Abbiamo, insomma, un’Elena maga a tutti gli effetti, un’Elena che sa maneggiare con abilità un filtro prodigioso: il famigerato nepénte, che, seppur per poco tempo, fa cessare ogni pena, passata e presente.  

Un farmaco che viene dall’Egitto, terra misteriosa per la quale i Greci da sempre e per sempre nutrivano, e nutriranno, un enorme rispetto e un grande senso di soggezione. Ora, anche chi è profano – come lo sono io, e come penso lo sia la maggioranza di chi ora mi legge – in fatto di scultura arcaica greca, non può non avvertire un’aura egizia in questi ieratici bassorilievi.

E adesso guardate quest’altro bassorilievo, che nella targhetta del museo non portava la dicitura “Elena e Menelao”, senza nemmeno un bel punto di domanda, come per il precedente.

Elena – perché, da lettrice fanatica dell’Odissea, per me si tratta senz’altro di lei! – è in secondo piano, rispetto al consorte, ma compie lo stesso l’azione più rilevante: d’accordo, è lui a reggere la coppa ma è lei ad armeggiarvi di soppiatto. Lui guarda – anche se quella superficie è danneggiata – nella nostra direzione, come per dirci che è lui il padrone di casa, ma lei, ritratta di profilo, conduce il gioco.

Osservate con attenzione.

Per toglierci ogni residuo dubbio che Elena sta maneggiando giusto il nepente, alla medesima coppa s’affaccia un serpentone, animale, che più di ogni altro ha a che fare col phármakon. Infatti, come la lingua greca ci insegna, phármakon significa sia “veleno”, sia “rimedio”.

Vi ho convinto? Spero proprio di sì.

16. Omaggio a Leonida

Non vi posso render conto, purtroppo, di tutti gli altri gioielli contenuti nel Museo Archeologico di Sparta. Un discorso a parte, ad esempio, meriterebbero gli splendidi mosaici, provenienti dal pavimento di alcune ville romane.

Vorrei, invece, raccontarvi di un mio entusiasmo che non riesco assolutamente a spiegarmi: un entusiasmo a sfondo guerriero proprio in me che sono pacifista e antimilitarista come pochi…bah…

Tutto cominciò perché mi venne la curiosità di andare a vedere da vicino una colossale statua elevata nel 1968, perciò durante il regime dei Colonnelli (1967-1974). Non ho mai potuto sopportare le dittature militari, ma dentro di me cova sempre una scintilla di amante del Kitsch, per cui, complice il fatto che il monumento non era molto distante dal mio albergo, ci andai.

Le condizioni per scattare delle foto decenti erano del tutto sfavorevoli: ero irrimediabilmente in controluce, il piedestallo era troppo alto, di lato c’erano inopportune chiome di alberi e di cespugli che rendevano meno netto il profilo dei volumi e, infine, vari pennoni di bandiera completavano il poco incoraggiante quadro. Tuttavia, non mi persi d’animo e cercai di fare del mio meglio, eliminando, anche questa volta caterve di foto.

A questo punto, se non l’avete già indovinato, mi chiederete chi era il personaggio raffigurato in questa posa ultramarziale. Si tratta del re spartano Leonida, morto da eroe nel 480 a. C. nella famosa battaglia delle Termopili.

Ora, anche chi non ha mai letto nemmeno una riga di storia greca, sa dell’esistenza di questa battaglia grazie ad un popolare colossal: Trecento (2007). Moltissimi lo hanno visto, tranne la sottoscritta che è fieramente allergica a film di quel tipo, pieni attori palestrati. Il mio snobismo, tuttavia, subì una specie di legge del contrappasso perché, lo devo confessare, più cercavo delle inquadrature convincenti, più ci prendevo gusto.

Per tentare di rimettermi in carreggiata osservai la scritta incisa nel piedestallo del monumento: molòn labé. E, vi assicuro, non c’è niente di meglio che cimentarsi a tradurre qualche parola greca per darsi subito una calmata.

Ebbene, il significato di queste parole, che diventa un motto proverbiale, come ci testimonia Plutarco (Apothégmata Laconica 225 c), risulta pienamente comprensibile se lo si integra coi fatti raccontati da Erodoto (nel settimo libro delle sue Storie) a proposito della seconda guerra persiana.

Per la cronaca, il re persiano (Serse) ingiunse al re spartano (Leonida), il quale poteva contare su un esercito con una consistenza numerica nettamente inferiore rispetto a quella del nemico, di arrendersi. Al che, Leonida non solo si rifiutò di consegnare le armi, ma rispose sdegnosamente proprio quella frase. Letteralmente significa: “Venendo prenditele (sottointeso, le armi)!”. Ossia: “Vieni a prendertele!”. E Serse non se lo fece ripetere, cosicché gli Spartani (che, a onor del vero, erano più di trecento) morirono tutti sul campo di battaglia.

Vi risparmio la descrizione dell’orrendo scempio perpetrato da Serse dello splendido cadavere dell’eroico avversario (Erodoto, VII, 238), e riflettiamo piuttosto sull’arte statuaria, che talora esiste anche per risarcire i caduti degli oltraggi subiti.

Tuttavia, nell’inebriarmi di questa statua relativamente recente, nonché di dubbio gusto, avevo un alibi di ferro: potevo averlo fatto non solo per perverso amore del Kitsch, bensì per prepararmi all’impatto con il gioiello più famoso del Museo Archeologico di Sparta. Questo non è costituito dai bassorilievi della famiglia di Elena, di cui vi ho parlato, e di cui condivido la mania solo con pochi altri, ma da un busto, conosciuto come L’oplita, che la tradizione vede come un ritratto di Leonida.

Si tratta di una statua del V secolo a. C., quindi circa coeva al tragico esito delle Termopili, e subito balza agli occhi come sia infinitamente meno arcaica dei bassorilievi di appena un secolo prima. Lasciamo perdere che il pennacchio dell’elmo è in gran parte ricostruito, restano sorprendenti gli addominali. Lasciamo anche perdere che probabilmente non si tratta del famoso re spartano, ma di un anonimo combattente, dotato di scudo (hóplon), che faceva parte della falange spartana: vi assicuro che la suggestione rimane comunque potente.  Ovviamente, ci si resta proprio di stucco se si vede costui da vicino. Allora, per cercare di carpire un ulteriore guizzo del carattere di costui e insieme sforzandomi di comunicarvelo, mi sono impegnata a scovare il suo sorriso, e mi sono immaginata che doveva essere proprio quella l’espressione beffarda di uno che sa pronunciare una sfida così fatale: “Vientele a prendere!”.

Lo so, sono tutte fantasticherie partorite dalla mia immaginazione morbosa. Probabilmente non si tratta che di un normalissimo “sorriso arcaico” e io ci ho costruito sopra, come dicono, con scherno, nei miei Appennini: “dei gran romanzi”. Che volete? Simili impatti con l’arte greca non hanno mai favorito la mia sanità mentale…

17. Mystrás: le ultime glorie dell’Impero d’Oriente

Come vi ho già detto, data la mia caviglia dolorante, visitai in due giorni, e non uno di seguito all’altro, i resti di Mystrás, un insediamento franco-bizantino che, ve lo assicuro, da solo sarebbe valso il viaggio in Grecia.

Vi dò qualche scarno ragguaglio storico. Nel 1249 Guillaume II de Villehardouin, di cui vi avevo accennato parlandovi di Kalamáta, aveva fatto costruire un castrum sulla sommità di una collina, che si trova alle pendici del Taighétos. Successivamente (1262) i Bizantini si ripresero il Peloponneso, e nel 1348 elessero Mystrás come sede del despotato della Moréa (nome che allora aveva quella regione). Per capirci, i Despótes, erano gli eredi dell’imperatore di Costantinopoli. Mystrás venne ad assumere, così, un grande significato simbolico-religioso per gli imperatori d’Oriente, che per due secoli vi edificarono molte chiese, oltre che un enorme palazzo. Noi oggi visitiamo tutto ciò in rovina perché Mystrás cadde in mano turca nel 1460 e rimase ottomana fino al 1834, anno di rifondazione di Sparta. 

Eppure anche semidistrutta, con le sue chiese devastate, i suoi affreschi sopravvissuti in minima parte e ridotti a mal partito, Mystrás conserva una potenza evocativa a stento immaginabile: vi alleggia un quid di sacro, oserei dire, di mistico, che mette soggezione a tutti, credenti o agnostici. Non ho sentito nessuno alzare la voce e fare schiamazzi tra le rovine, e sì che di visitatori ce n’è sempre una caterva e di tutte le nazionalità.

Ovviamente, come sempre quando scatto una foto, anche se sono in un luogo molto frequentato, faccio in modo che di umani non se ne vedano o quasi.

A proposito di foto, vi avverto che ne feci una quantità assurda e che per me ora è durissimo farne una selezione.

Cominciamo da dove iniziai la mia prima visita, ossia dal basso. Insomma, rendetevi conto di perché mi sentii venir meno guardando il grande dislivello che avrei dovuto affrontare tra la parte inferiore della città e la rocca, che mi parve irraggiungibile.

Ecco la chiesa metropolita di Ághios Dimítrios che destò la mia ammirazione, più che per il suo interno, che è splendidamente affrescato e comunque, in quel momento, troppo affollato per i miei gusti, soprattutto per la bellezza della sua cupola e l’eleganza della sua abside.

Però, all’interno, mi successe qualcosa di parecchio strano. Nella navata centrale, fui calamitata da una pietra con scolpita in bassorilievo un’aquila bifronte, che fu l’emblema dei Paleologhi, ossia dell’ultima dinastia degli imperatori bizantini.

Non so come spiegarvelo: mi sentii trapassata da parte a parte dalla spada della Storia. Non sto esagerando! Il fatto è che mi fece un’enorme impressione rendermi conto che proprio là, su quella pietra, fu incoronato (1449) Costantino XI, lo sfortunato ultimo imperatore d’Oriente, ovvero colui che, di lì a poco (1453), sarebbe morto combattendo strenuamente per la difesa di Costantinopoli.

Purtroppo la caduta della Città per eccellenza lascia indifferenti ormai quasi tutti i miei contemporanei, invece io, pur amando molto anche le splendide moschee ottomane che ora la impreziosiscono, prima tra tutte quella di Solimano il Magnifico, non ci posso pensare senza che mi vengano i brividi.

Perciò, per sfuggire allo sgomento che avevo provato, mi affrettai a visitare altre chiese e, in particolare, sostai a lungo, mentre la mia caviglia mi gridava un ultimatum, nelle vicinanze a quella dedicata alla Vergine Hodighítria (letteralmente: “Madonna che regge il Bambino mentre lo indica come colui che mostra la via”), ma non voglio tediarvi con la tipizzazione delle icone bizantine e poi russe…

Quello che mi piacque oltremodo era la sensazione di calma assoluta; osservate bene e potrete intravedere un mulo che bruca l’erba tra le rovine.

Quando ripresi la visita di Mystrás, due giorni dopo, con la caviglia ben fasciata e impomatata, decisi di essere saggia e di farmi portare in taxi nel punto più alto cui giungeva la strada carrozzabile. M’illudevo che così mi sarei risparmiata una tremenda ascesa e che avrei continuato la visita solo scendendo. Mi sbagliavo: la strada finiva sin troppo presto e cominciava una salita coi fiocchi, che affrontai arrancando su una vera mulattiera duecentesca. Le pietre che la pavimentavano erano talmente levigate dall’usura dei secoli che faticai parecchio a reggermi in piedi.

Ma alla fatica si sostituì subito un desiderio bambinesco di conquistare la rocca: “A noi due, caro Villehardouin!”, il cuore mi andava cantando, caviglia o non caviglia.

Non vi posso raccontare la mia soddisfazione quando cominciai ad essere nella prossimità delle mura di cinta e la mia esaltazione quando ne varcai la porta diruta.

Data l’ora parecchio mattiniera, ero sola, fatta eccezione di un atletico e simpatico tedesco pluriottuagenario, come da manuale ottimamente calzato, che mi espresse il suo entusiasmo nella lingua di Goethe. E io gli risposi più volte a tono col mio eloquio teutonico superesiguo. Come abbia fatto lo ignoro: potenza della cima conquistata e di quello che stavo vedendo perlustrando gli spalti della fortezza.

Quella che potete intravedere in basso, coronata da un cielo tutt’altro che terso, è Sparta.

Poi mi decisi a scendere. Avevo tre mete: la prima era la chiesa di Ághia Sophía, con all’interno, tra l’atro, una cappelletta laterale su cui era affrescata una nascita della Vergine, che nulla ha da invidiare a Giotto.

La seconda meta, sempre scendendo, era il possente palazzo dei Despótes, ora in corso di restauro, anche se in una maniera che mi lasciò alquanto perplessa.

Ma era la terza meta quella che più bramavo raggiungere. La Chiesa della Pantanássa, ossia della Vergine che è anássa, ossia “signora assoluta” di tutto l’universo.

E qui, vi devo confessare una mia smargiassata; la vittima fu un francese, che aveva letto la targhetta non comprendendone il senso, e che mi si era rivolto. Sicché, fu lui a tirami a cimento perché lo illuminassi. Al che, non solo gli spiegai che anássa, parola che, a onor del vero, stavo incontrando esattamente così per la prima volta in vita mia (l’avevo sempre solo vista al maschile) è chiaramente – sì, dissi proprio così! – il femminile di un vocabolo preellenico ánax: “re”. E poi che c’era di mezzo pan: ossia il tutto. A quel punto, il malcapitato annuì grato e confuso. E io ingrassai tre kili.

Vi assicuro, non c’è nessunissimo nazionalismo ogni volta che mi produco in tali performances, il cui corollario è: “vabbè so il greco, ma tutti in Italia lo sanno”. Entra in gioco qualcosa d’altro: è il mio modo di protestare per lo stato di totale becera ignoranza cui si è ridotta la nazione alla quale, malgré moi, appartengo.

La chiesa della Pantanássa è all’interno di un monastero di monache ortodosse, che attualmente sono le uniche abitanti di Mystrás. Vi feci ingresso con grande curiosità perché non avevo mai visto una monaca ortodossa e morivo dalla voglia di rendermi conto di com’erano vestite e come si comportavano.

Incontrai subito la monaca portinaia: una vecchina, tutta curva, che mi trattenni dal fotografare per il rispetto e la tenerezza che inaspettatamente costei m’ispirò.

Per la cronaca, ho frequentato l’asilo e parte delle elementari presso delle antipaticissime suore cattoliche, le quali mi hanno fatto detestare la categoria per il resto della mia esistenza, oltre che rendermi pressoché atea.

Accontentatevi di sapere che l’anziana monaca della Pantanássa indossava un rustico saio nero, stretto in vita da un cordone candido, ritorto, e in testa portava non un velo bensì un semplicissimo cappuccio.

Totalmente sprovvista di denti, la monaca mi parlò con una vocina di miele, chiedendomi del mio viaggio, le risposi commossa e comperai una piccola medaglia di ceramica, fatta a mano – che ora porto spesso con me – dipinta di color smeraldo, dove s’indovina appena la sagoma d’una croce greca.

Non potendo, per via della mia solita fobia del bagaglio leggero, di cui mi scusai con la monaca, acquistare nessun altro manufatto – vi erano semplicissime ma incantevoli candide tovagliette, ricamate con un infantile e squisito punto croce – lasciai una generosa offerta per il monastero.

Poi visitai la chiesa e passai di meraviglia in meraviglia. Si tratta dell’edificio costruito per ultimo in tutta Mystrás: un insieme bizzarro e pieno di charme in cui non mancano persino elementi gotici.

All’interno mi soffermai alquanto in un piccolo altare laterale, dove vi era la tomba di un singolare personaggio. L’affresco è parecchio rovinato e presumo che al posto degli occhi vi fossero delle pietre preziose o qualcosa di simile. Ora come ora, ha piuttosto l’aria di un personaggio da racconto dell’orrore, una specie di antico vampiro.

Mi chiederete chi mai sia costui; si tratta di Manuel Láskaris Chatzikis, morto nel 1445 e, come si evince da una scritta sull’affresco, al servizio del futuro ultimo imperatore, che, in un primo momento (1443-1449), era despótis di Mystrás. Ebbene, io nutro un grande rispetto per la famiglia Láskaris, e sapete perché? Non tanto perché era un’antica e nobile famiglia che annovera tra i suoi membri persino imperatori orientali, quanto piuttosto perché fu un Láskaris, per l’esattezza Kostantinos Láskaris, ad insegnare il greco ai nostri tra i più preziosi umanisti, quali Pietro Bembo e Lorenzo Valla.

Letteralmente mi strappai a forza dalla Pantanássa, dove sarei rimasta per giorni, completamente sedotta dall’atmosfera che vi si respirava, dalle sue rose e dalle sue pietre corrose, trasudanti storia.

E, scendendo verso valle, ormai da lontano, le lanciai un lungo sguardo di rimpianto, come lo si lancia ad un paradiso perduto.

18. Un gioiello circondato dal mare: Monemvássia

Avevo un progetto cui temevo di dover rinunciare: spingermi fino a Monemvássia, che si trova nella costa orientale del Peloponneso, a più di cento kilometri da Sparta. I collegamenti erano scoraggianti: più di tre ore di bus, con continue soste in paesini dimenticati da Dio, percorrendo strade abbastanza dissestate. Siccome era impossibile visitare questa località in un’unica giornata, risolsi di lasciare gran parte del mio bagaglio nell’albergo di Sparta e di recuperarlo il giorno dopo.

Ora, dormire a Monemvássia era sconsigliato dalle guide, che paventavano prezzi esosissimi. Ma si vive una volta sola e volevo visitare quella roccaforte sul mare, volevo svegliarmi là la mattina dopo, letteralmente, costasse quello che costasse.

Quando, a pomeriggio inoltrato, scesi abbastanza spossata dall’autobus, feci esattamente il contrario di quello che mi veniva consigliato: ossia accontentarmi di alloggiare nella sciatta città moderna (Ghéfira) e visitare la città antica in un secondo momento. Puntai, perciò, dritta dritta sulla lunghissima striscia che unisce Monemvássia alla terra ferma.

Dovete sapere che nell’antichità questa cittadina non esisteva ancora: fu un tremendo terremoto, scatenatosi nel IV secolo d. C., a staccare un pezzo di monte e a mantenere uno stretto cordone ombelicale con la costa. Guardate che spettacolo singolare mi si presentò davanti agli occhi.

La città non la si vede ancora perché la strada costeggia tutto quell’enorme sperone di roccia prima che ci si trovi dinanzi all’entrata delle mura. E, una volta là, si capisce appieno il significato del nome di questa città. Monemvassia: sta ad indicare che c’è un unico (mónos) accesso, ossia che vi si accede (en-baíno) per una sola porta. Eccola qua.

La superai felice e puntai con decisione sulla reception del rinomato hotel Bizantino che, come scoprii in seguito, ha varie dépandences. La signora che stava dietro al bancone, vedendomi con i miei jeans e con il mio zainetto piuttosto vissuti, mi chiese – ma lo fece con gentilezza – se mi rendevo conto che quell’albergo era piuttosto caro. Le risposi che non m’importava e che sparasse la cifra. Mi propose, allora, di alloggiare in una delle stanze, che si trovavano in un edificio medievale: erano molto piccole, si scusò, e mi propose una cifra ragionevolissima (circa un terzo di quello che paventavano le guide), cifra che ridusse ulteriormente, perché mi disse che le faceva simpatia che tentassi di parlarle in greco.

La stanza, che non era poi tanto piccola, era splendida con le mura di pietra viva. Mi affacciai e notai subito il carattere ibrido della città che, data la sua posizione strategica, era stata ambita dai vari conquistatori di turno, tra cui non era mancato il solito Villehardouin.

Potete vedere qui mescolati sia elementi veneziani, sia turchi.

Il tempo era incerto e c’era una pioggerellina oltre che un vento piuttosto impetuoso; risolsi di bermi una birra e di tentare subito la conquista della cittadella veneziana che dominava dall’alto la città vecchia. Risaliva all’ultima dominazione della Serenissima, che era durata dal 1590 al 1615. A partire da quella data, Monemvássia era stata sempre ottomana e i Turchi vi erano stati cacciati nel 1821, dopo un assedio lungo e drammatico.

Mentre mi bevevo l’agognata birra, fui letteralmente abbordata da un greco atipico, poliglotta che cominciò a inanellare in italiano lodi sperticate sulla mia bellezza.

Non sono nata ieri e, siccome sono conscia della mia età e, come spiego nel semisonetto, non mi va di diventare “vecchia e gradassa”, magari vantandomi d’aver conservato un fascino irresistibile, capii subito che si trattava di un aspirante gigolo. Gli risposi gentilmente che ero stanca e che non avevo bisogno di compagnia. E il ragazzo – perché aveva al massimo una trentina d’anni – insistette pure per farmi una foto, glielo permisi, prima di eclissarmi.

Dalla foto, in cui, come al solito, son venuta malissimo, potete vedere, oltre al fatto che tanto per cambiare mi toccava star vestita fino ai denti, come, nella parte alta, si erga la cittadella veneziana. Ebbene, io volevo conquistarla, con la mia caviglia ancora convalescente, prima che il tempo volgesse irrimediabilmente al brutto.

Mi scuso perciò della qualità discutibile delle foto, dove, tra l’altro il cielo e il mare risultano purtroppo di un colore assai sbiadito.

Ecco l’entrata nella parte più alta della cittadella.

Adesso capite perché Monemvássia era difficilmente espugnabile: gli strapiombi non mancano e sono da capogiro.

La mattina dopo, volendo evitare una detestabile fauna di cafoni arricchiti (di ogni nazionalità) che infestava la cittadina – ed era ancora maggio… non oso immaginare quanti ce ne siano nella stagione estiva… – mi alzai molto presto e mi aggirai tra le vie lastricate, ancora per poco, deserte. E così, mi potei beare del verde brillante degli alberi e dei cespugli che traboccavano dai giardinetti cintati di pietra. E ancora, mi deliziai del rosa carico delle fuxie, che tappezzavano i muri delle case.

D’accordo, di maggio spesso fa ancora freddino, ma quando si possono trovare colori così?

Ecco l’ultima immagine che vi lascio della divina Monemvássia: rocce immense ed incombenti e semplici case ridenti.