Ottava giornata: Fríkes-Kióni-Fríkes-Nydrí

Mi sveglio in preda a sentimenti contradittori: da un lato, sono divorata dalla nostalgia di Itaca, ancor prima di lasciarla, dall’altro, sento che uscire da quest’isola non sarà senza complicazioni. È come se il mio angelo custode – ma pensando io alla greca, preferisco dire il mio daímon – mi lanciasse un messaggio di massima allerta.

E difficilmente costui, angelo o demone che sia, s’inganna.

C’è chi la chiama semplicemente ansia, ma a me sembra banale, oltre che maledettamente contemporaneo, metterla così.

Però cerco di reagire tanto più che, di primo mattino, la luce livida della sera prima sembra dileguata. Tuttavia, la proprietaria dell’hotel Nostos mi avverte che non m’illuda: il tempo si guasterà a metà pomeriggio.

E i Greci con le previsioni metereologiche di solito ci prendono.

Mi affretto, allora, ad imboccare la strada costiera per Kióni, che dista circa cinque kilometri ed è in una insenatura appena a sud-est di Fríkes.

Un mio amico mi aveva magnificato Kióni e ricordo che pure la guida delle Ionie lo definiva il più bel paese dell’isola, anche perché l’unico rimasto intatto dopo il terribile terremoto del 1953.

Verifico, invece, che è diventata una tipica località turistica, con le sue inutili boutiques, con cantieri per nuove case, strapiena di Inglesi danarosi e chissà quanto zeppa di yacht in alta stagione. No, no: mi garba molto di più la piccola e graziosa Fríkes che, per il momento, è senza pretese.

Sicché a Kióni, non scatto nemmeno una foto. Ne scatto, invece, varie lungo l’ombrosa strada che colà conduce. Ve ne mostro solo tre che ritraggono la stessa piccola e incantevole baia, presa in tre prospettive diverse.

Sono abbastanza soddisfatta di com’è venuto il colore dell’acqua e un po’ meno di quello del cielo. Come appaia, invece, variegato l’orizzonte delle Ionie, con sempre un’isola in lontananza, ecco, quello spero di avervelo fatto intuire.

Torno precipitosamente a Fríkes, dove mi proporrei di fare un pranzo leggero, ma Eléni mi annuncia invitante che Vassíli, essendo domenica, ha fatto un bel pasticcio di kremmídi e che ci resterebbe male se non lo provassi. Oddio, ho sempre fatto una fatica d’inferno a digerire le cipolle, sia crude che cucinate! Ma Vassili mi guarda da lontano con la sua solenne possanza russa, col suo sguardo mite da principe Myškin, che mi diventa impossibile dire di no. E così me ne pappo due fettone, dovendo riconoscere che l’impasto è di rara delicatezza.

Ho già abbandonato, prima di pranzo, il fascinoso hotel Nostos ed ho sottomano tutti i miei bagagli sicché ricomincio a scrutare il mare, che si sta increspando sempre di più, sento una brezza, dapprima leggera, farsi sempre più gelida e insistente mentre il tutto si soffonde di una luce plumbeo-verdastra che non promette nulla di buono.

Scruto anche l’orologio. Ho pagato per tempo il conto in modo da scattare verso la banchina del porto non appena la sagoma del Nydri Star apparirà.

Vengono le due e mezza, poi le tre, poi le tre e mezza e del battello non c’è ancora traccia.

Accidenti! Comincio a congetturare che magari a Nydrí il tempo è già molto peggio e che nessuno s’azzarda a prendere il mare.

Come farò a non perdere la nave di ritorno, visto che da domani il tempo si romperà del tutto?

Le quattro son già passate quando vedo la sagoma di un battello, saluto frettolosamente Eléni e Vassíli e mi precipito verso la banchina, ma mi accorgo che quello che penso essere il Nydri Star sta virando verso un molo, dalla parte opposta del porto. Corro in quella direzione per farmi trovare a terra esattamente dove avverrà l’attracco.

Sono così di fretta che, complice anche il fatto che la mia vista lascia molto a desiderare, non mi accorgo subito di salire a bordo di un battello sconosciuto.

Presto però metto a fuoco che l’equipaggio non è affatto composto da facce a me note, guardo finalmente la fiancata dell’imbarcazione e leggo: “Khrystina”.

Per Zeus!

Mi sta osservando il capitano, panciutissimo, malrasato e in pantaloni corti, ossia l’esatto opposto del distinto capitan Pános, con la sua inappuntabile e candida divisa della marina.

Tuttavia, questi nuovi pirati, di primo acchito, non sembrano antipatici: mi accolgono, tutti allegri. Alla mia domanda se il Nydri Star sia salpato, mi rispondono che oggi non ha preso, né prenderà, il mare.

Pecco d’ingenuità: credo tranquillamente alla ciurma di pirati numero due.

Del resto, vi assicuro, il mare si va facendo sempre più brutto.

Patteggio la cifra per essere trasportata a Nydrí che mi sembra esosa ma, visto che son convinta di non aver alternative, la sborso lì per lì senza obiettare.

Intanto tutti i passeggeri sono scesi per una breve sosta a Fríkes. La sosta sarà particolarmente breve, mi si spiega, perché il tempo sta volgendo al peggio.

Nel frattempo, sono preda di sentimenti sempre più contraddittori: di fondo sono felice e sollevata di esser sfuggita di tra le maglie della rete dell’antipatico e invasivo Dimítris, dall’altro, penso che non sarà facile trovare dove alloggiare in una Nydrí ormai notturna, che sarà affollatissima essendo per giunta domenica e il tutto, probabilmente, sotto un diluvio.

Mi viene in mente di chiedere soccorso ai due simpatici vecchietti dove ho pranzato e cenato quasi una settimana prima.

Mentre vado così almanaccando, ora che tutti i ritardatari sono rientrati a bordo, si son fatte le cinque.

La passerella del Khrystina sta per esser ritirata quando – per la chioma turchina dello Scuotiterra! – nello stesso molo, ma diversi metri più in là… attracca il Nydri Star.

Santi numi!

Che debbo fare?

Dico al capitano numero due che non posso restare con loro e che almeno devo dire alla prima ciurma che non sono scomparsa.

Dapprima il capitano numero due cerca di dissuadermi con le buone dicendomi che loro sarebbero arrivati a Nydrí prima del buio mentre invece gli altri, che sono appena arrivati, faranno un giro più lungo e che, così, avrei messo piede a terra molto tardi.

Tutti i marinai in coro mi esortano a restare con loro e io mi sento circondata.

In mezzo a questo assedio, improvvisamente suona il mio cellulare, rispondo e sento l’inconfondibile voce di… capitan Pános…

Spaesamento: come fa ad avere il numero? Beh, glielo avrà dato Dimítris, non si spiega altrimenti.

Ebbene, capitan Pános mi chiede, in un inglese gentile che però non ammette repliche, dove sono.

Gli confesso di essere sul Khrystina, visto che loro non erano più arrivati; dato il mio stato confusionale, gli parlo in un neogreco particolarmente maccheronico.

Al che, capitan Panos praticamente mi ordina di raggiungerli subito.

Segue un dialogo brusco tra me e il capitano numero due: costui – che assume sempre di più il poco rassicurante ceffo di chi giudò l’ammutinamento de L’isola del tesoro, e i suoi scherani quella di “quindici uomini nella bara del morto” – si rifiuta di restituirmi la cospicua somma che ha proditoriamente intascato.

Io, con sommo sprezzo, gli dico che se la tenga pure, ma che mi lasci scendere. Più semplice a dirsi che a farsi: uno dei pirati della ciurma numero due mi trattiene prendendomi per un braccio.

La voce telefonica di capitan Pános m’interpella nuovamente e io gli rispondo la verità: “Okhi borò!”. Il che significa, fatto salvo il mio uso approssimativo delle negative: “Non posso!”.

Ai miei accenti, che devono esser suonati a capitan Pános come un’accorata richiesta d’aiuto, appare il più corpulento dei marinai della ciurma numero uno che, con un balzo, si issa sul Khrystina, ormai con la passerella mezza su e mezza giù. Mi offre il braccio e mi deposita sul molo, consigliandomi di riparare nel Nydri Star.

Atterro non rovinosamente, per fortuna.

Sento che sta svolgendosi un aspro alterco alle mie spalle, ma non mi volto perché non sono in vena di assistere a qualcosa che può facilmente degenerare in una rissa tra pirati.

Una volta nel Nydri Star, mi accingo a pagare la mia quota, ma ci tengo a precisare che quelli del Khrystina mi hanno estorto un bel po’ di euro, senza sognarsi di restituirmeli. In ogni caso, siccome l’ingenua sono stata io, sottolineo, è giusto che paghi anche loro. Al che, capitan Pános, da quel gentleman che è, mi dice, sorridendo munifico, che non vuole nulla da me e che gli altri sono dei delinquenti.

E i due battelli non partono.

Vedo con la coda dell’occhio che altri membri dell’equipaggio del Nydri Star stanno scendendo sul molo.

Terrorizzata che per colpa mia possa finire a coltellate, mi rifugio nel ventre del Nydri Star.

Politica dello struzzo? Ebbene sì, lo ammetto senza pudore.

Finalmente si salpa.

Del Khrystina si perdono subito le tracce. Segue un’altra rotta, per fortuna!

Non saprò mai se la ciurma numero uno è riuscita a farsi restituire il maltolto dalla ciurma numero due. Se, cioè, capitan Pános è davvero splendido o se, invece, ha fatto solo scena.

Ma non m’interessa saperlo: sono troppo concentrata nella splendida sensazione di essere in salvo. A Dimítris, che tra non molto rivedrò, no, non mi va proprio di pensare.

Una decina di minuti dopo che siamo per mare, comincia a piovere violentemente. Tutti i gitanti giornalieri, che questa volta son tutti ragazzini, per lo più americani, seminudi, abbandonano a precipizio il ponte superiore e si rifugiano sottocoperta; sono completamente zuppi e cercano di resistere, avvolgendosi negli asciugamani, alla temperatura che è calata bruscamente.

Battono i denti, i tapini, mentre io godo della protezione della mia, ancora una volta provvidenziale, giacca a vento.

Nel frattempo, la sensuale voce di capitan Pános, diffusa da un microfono su tutto il natante, va magnificando, nel suo caldo e inappuntabile inglese, le bellezze di varie isole, dove purtroppo, date le intemperie, non avremo modo di sostare.

Con una manovra oltremodo spericolata, capitan Pános s’insinua a pelo in un’angusta grotta di Meganíssi; come faccia ad evitare di mandare in pezzi il suo battello lo sanno solo le divinità marine, che evidentemente gli sono particolarmente favorevoli.

Guardate qua:

Tra i ragazzetti americani scoppia tosto un fragoroso applauso, cui il capitano, risponde ringraziando compiaciutissimo, ostentando finta modestia.

Mentre puntiamo sulle isole Skórpios, scoppia un violento temporale: lo Scuotiterra moltiplica la forza dei marosi e Zeus si diverte a tirare saette e darci dentro coi tuoni.

Si balla che è un piacere.

Al che, capitan Pános, annuncia munifico un happy hour a prezzi stracciatissimi nel bar a bordo.

Non ne approfitto, impegnata come sono a tenere a cuccia le mie viscere sotto pressione.

Due singolari personaggi, nel frattempo, hanno intavolato una conversazione con me. Si tratta di una coppia. Lei è un’Americana giovane e coi capelli verde smeraldo, carina di viso ma grassa oltre ogni dire, avvolta in un pareo coloratissimo, che non riesce a contenere le sue trippe, né lei, del resto, riesce a contenere le sue effusioni nei confronti del compagno, il quale tenta di sottarvisi. E lo fa in maniera discreta: rintuzza i baci e le carezze stando attento, però, a non esser troppo rude.

Lui è chiaramente il suo gigolo.

Certo che, tra la “professionista” sulla nave e lo chauffeur dell’Americana – lo dico perché l’uomo m’informa, tra l’altro, che l’ha scarozzata per tutta l’isola di Lefkáda con un’auto a nolo – in questo viaggio, mi sto facendo una discreta cultura su démi-monde

L’uomo, sulla trentina, è un Bulgaro smilzo che parla pure discretamente l’italiano.

L’argomento di conversazione cade sul tragico destino dei figli della famiglia Onassis e sull’armatore medesimo, su cui il Bulgaro è informatissimo.

Mi rende così edotta che le Skórpios son divenute ora proprietà di un magnate russo.

E ti pareva!

Quasi volesse riprendersi lui tutta l’attenzione dei passeggeri, capitan Pános torna a diffondere la sua morbida voce. Ed è con grande pathos che ci parla della misteriosa morte di Khrystína, la figlia diletta di Onassis… ah, ecco il perché del nome del battello dei pirati numero due!

Ma la klimax – scusate la pignoleria ma in greco antico è un sostantivo femminile e non maschile –  giunge al culmine quando capitan Pános ci annuncia che stiamo costeggiando la spiaggetta privata delle Skórpios, dove Jacqueline Onassis, vedova Kennedy, fu sorpresa da un indiscreto paparazzo mentre prendeva la tintarella nientemeno che… in topless!

Caro capitan Pános, ma fu nel 1973! Non esattamente ieri! Mi verrebbe da dirgli, ma lui vive nel tempo senza tempo di quello che, a suo avviso, è un mito intramontabile.

Il mare delle Skórpios, mi assicura il Bulgaro, avrebbe colori spettacolari, ma con la tempesta che ci stiamo beccando, addio! Ecco il pochissimo che son riuscita a fare.

Eh sì, dobbiamo supplire con la fantasia.

Attracchiamo trionfalmente sul lungomare di Nydrí, dove sta spiovendo, e capitan Pános, abbandonate le sue mansioni di provetto pilota e di brillante speaker, si posiziona vicino alla passerella di sbarco accogliendo soddisfatto gli ultimi applausi dei passeggeri, tra cui il mio.

Lui cerca invano di nascondere quanto stia gongolando.

Tutti gli sfilano davanti e gli stringono la mano. Lo faccio anch’io ringraziandolo con calore. Anche questa volta, lui mi strizza l’occhio.

Ah, che uomo fascinoso!

L’aura di poesia nautico-erotica, si dissolve di brutto all’apparire di quello stronzo di Dimítris, che mi saluta tutto risentitello e mi dice che la signora m’aspetta e che, ormai, la strada la so da sola (tra parentesi, del “camorrista” nessuna traccia).

Povero illuso, crede di farmi un gran dispetto non fornendomi più una scorta!

Volo, tra immense pozzanghere, dalla signora, che, gentilissima, ricordandosi che son freddolosa quando dormo, ha fornito il mio letto di altre due coperte (nefande ma calde), oltre all’indimenticabile leopardo-zebrata.

Mi precipito nel wine bar dove, come avete già indovinato, mi strafaccio di vino della Tracia.

Piuttosto brilla come sono, me la rido per un bel po’ da sola: le mie recenti avventure coi pirati perdono tutto il disagio e anche la tensione e la paura, che mi hanno appena causato, diventano un sacco divertenti.

Poco da fare, mi sento maledettamente soddisfatta e pure fiera per come me la sono cavata!

E non vedo l’ora di poterlo raccontare.

Nona giornata: Nydrí-Lefkáda

Contrariamente a quello che speravo, dormo poco e male.

È insomma destino che i poteri soporifici del formidabile vino tracio siano sempre neutralizzati!

A tenermi sveglia, questa volta, non è l’assillo piratesco bensì, come spesso accade, l’invidia degli dei… sotto forma d’infernali anfibi.

Mi spiego: la pioggia torrenziale del giorno prima ha reso ricca d’acqua una canaletta che scorre vicino alla casa dove dormo e che, una settimana prima, era completamente secca.

Ergo, c’è stato un gran concerto di fottutissime rane tutta la notte.

La mia padrona di casa, vedendomi per la seconda volta con gli occhi sbattuti, s’informa premurosamente se ho dormito bene. Spiacente di deluderla, le rispondo che no, che quei malvagi batraci – ricorro, per esprimermi, a reminiscenze delle Rane (Bátrakhoi) di Aristofane, che con gli Inferi hanno, appunto, a che fare – hanno fatto una fassaría (baccano) d’inferno.

Lei scoppia ridere allegra e commenta: kalì musikì.

Beh, io avrei gusti musicali un po’ diversi…

Quanto al marito, un vecchietto molto attivo, perennemente in canottiera, intento fin dal primo mattino a far lavoretti di manutenzione, mi consegna solerte un cartoncino con l’indirizzo di casa sua, raccomandandomi di rivolgermi direttamente a loro, sott’inteso senza altri intermediari, la prossima volta che ricapiterò a Nydrí.

Beh, se pensate ancora che quello del pizzo (ai pirati-camorristi) sia un mio delirio, non so cosa farci…

Anche se Nydrí fosse il posto di villeggiatura dei miei sogni – e non lo è mai una località balneare di massa, ancorché provvista di un’enoteca di grande livello – è meglio che cambi aria di fretta.

Non vorrei insistere, ma con due ciurme avversarie di pirati, cui probabilmente ho provocato qualche guaio, oltre che per la presenza del pestilenziale Dimítris sul lungomare, è più igienico che emigri al più presto altrove.

Prendo, allora, un bus per Lefkáda.

Nella pensione Pirofáni, vengo accolta molto calorosamente dalla giovane proprietaria, che è molto curiosa di sapere se e come sono riuscita ad arrivare ad Itaca.

Glielo racconto scendendo nei particolari e, questa volta, aiutandomi con pezzetti di carta che riempio di fitti caratteri greci, sempre col mio fido dizionarietto alla mano.

E vedo che la mia produzione di cartigli, così vergati, le fa molto piacere.

Affermo che i Greci mi son tutti molto simpatici, perché sono tutti gentilissimi e soccorrevoli, tutti tranne… i pirati… tra cui spicca la fulgida eccezione di capitan Pános… ma questo lo tengo per me… e per voi.

Scopro, così, che “pirati” in neogreco, e non certo in greco antico, si dice piratés, sicché ci si capisce bene.

E, in seguito, rifletto che già nell’Odissea tale perfida genìa funestava il mondo.

Eumeo, che non era nato schiavo, ma era addirittura figlio di un re, fu ancor bimbetto rapito da dei poco di buono di stirpe fenicia che come pirati si comportavano, con la complicità della sua infida nutrice-bambinaia, anch’essa una Fenicia, che precedentemente era stata venduta come schiava da altri pirati (Od. XV, 407-484).

Lasciamo perdere quello che racconta Ulisse quando si sbizzarrisce in balle cretesi, che hanno anch’esse una venatura piratesca (Od. XIV, 334-340).

Infine, ricontrollo un passo in cui Penelope è molto adirata con Antinoo, il più tracotante dei suoi giovani pretendenti, perché ha tramato per ucciderle il figlio Telemaco in un’imboscata. Ebbene, Penelope rinfaccia ad Antinoo di esser un ingrato perché suo padre fu tratto d’impaccio da Ulisse, allorquando si era messo in combutta coi pirati di Tafo, incorrendo nelle ire di certi alleati degli Itacesi (Od. XVI, 424-430).

Non vi voglio far venire mal di testa con simili arcaiche beghe, era solo per dirvi che i pirati esistono da sempre, tanto per cominciare, nelle Ionie oltre che altrove, beninteso.

Ma non mi dovete immaginare che compulso freneticamente l’Odissea non facendo nient’altro. Sì, d’accordo, apro questo, per me sacro, volumone spesso e volentieri ma intanto sono immersa nell’indolenza dei simpatici caffè di Lefkáda, dove oggi, ma anche i due giorni a venire, passo ore e ore.

È questo, infatti, uno degli impagabili vantaggi di viaggiare in periodi non turistici: poter godersi i caffè popolati quasi esclusivamente da chi è del luogo.

Ci sono, è chiaro, anche alcuni turisti, per lo più tedeschi o anglosassoni, ma sono ancora mosche bianche.

Sapendo che tra poco non lo potrò più fare, mi giulebbo lo sfizioso rito dell’ouzo.

Intanto la piazza principale pullula di bimbi, che continueranno a giocare beati fino a tardissima notte.

Starei in questa piazza ancora chissà quanto ma, come sentenzia Ulisse, “non si può nascondere il ventre bramoso” (Od. XVII, 286), sicché bisogna che cominci a pensare alla cena. Mi vien nostalgia del ristorantino lungo la marina, dove avevo pranzato, esattamente una settimana addietro, insomma, torno dalla chiassosa signora, che fu il primo abitante di Lefkáda in cui m’imbattei.

Costei mi tratta come una vecchia conoscenza, mi spinge, di nuovo, in cucina tra i tanti pentoloni e, saputo che ho voglia di stare sul vegetariano, mi propone dei fagiolini (o fagioloni) in umido con peperoni: i mitici fassiolákia.

Ovviamente, me ne ammannisce un piatto che avrebbe sfamato un esercito: una goduria ve lo assicuro.

Intanto, arrivano al tavolo accanto tre miei connazionali: i primi che incontro dall’inizio di questo viaggio.

Non ne esulto.

Dovete sapere che all’estero divento particolarmente xenofila, come se normalmente non lo fossi già abbastanza.

Insomma, la signora mi nomina d’imperio sua interprete, perché con l’italiano non se la cava tanto bene.

Sono tre, dicevo, due quarantenni o cinquantenni e un settantenne arzillissimo, padrone di un grosso battello a vela, più motore, che sta per esser ricondotto in Puglia con provenienza coste delle Turchia.

Dei due, che gli fanno occasionalmente da aiutanti, non mette conto di parlare, anche perché non amo particolarmente l’accento, il modo fare, spesso supponente, di tanti abitanti dell’Italia Nord-occidentale.

Il proprietario del natante è, invece, decisamente più simpatico.

Costui, un agiato professionista torinese, ancorché di origine sicula – e la cosa ai miei occhi è un punto a suo favore – è molto gentile e signorile, si mostra curioso del mio modo di viaggiare, che è agli antipodi del suo. Interpellato dalla moglie, che lo chiama al cellulare, mi definisce entusiasta: “una signora de-li-zi-o-sa!”.

Trattengo a stento una risata omerica.

Il torinese possiede una villa a Cannes – o ad Antibes, non ricordo – e m’invita a tenerci in contatto.

Son cose che si dicono poi non si fanno. E probabilmente è meglio che sia così.

I tre non possono far tardi perché tra non molte ore comincerà la loro tirata fino a Brindisi, mi par di ricordare.

E il ponte mobile che collega Lefkáda alla terraferma, in modo da far passare i battelli, viene alzato già al mattino presto.

Insomma ci si saluta.

Io, che non ho fatto praticamente nulla tutta la giornata, mi sento egualmente molto stanca.

Saranno ancora le emozioni del giorno prima…

Prima di avviarmi verso la mia pensione, percorro per intero il lungomare e m’imbatto in un locale per drinks che è situato su di una chiatta, travestita da galeone.

Indovinate come si chiama?

Piratés, si chiama!

Ma è un’ossessione!

Avete visto che razza di zabajone? Il teschio dei pirati – che è anche una obsoleta musicassetta – è abbinato col leone di San Marco: è troppo assurdo e divertente!

Sono piuttosto provata – anche perché la signora della trattoria e i tre connazionali mi hanno indotto a bere un numero imprecisato di digestivi – ma domani sera non ci piove che un salto dai Piratés galleggianti lo voglio proprio fare.

Decima giornata: Lefkáda

Al mattino tento di fare colazione in maniera parca anche perché, lo avrete di certo indovinato, sto prendendo kili che è un piacere.

Ma i miei tentativi di arginare la mia crescente opulenza falliscono, ogni volta, miseramente.

Vi faccio un esempio: ordino un espresso oppure un frappè (nescaffè lungo e shakerato con ghiaccio, di cui soprattutto i giovani Greci sono consumatori accaniti) e specifico “E basta!”, ma non c’è verso! Mi arrivano puntualmente anche due fette di torta.

Ho un bel protestare che non le ho ordinate, al che, vengo fraintesa: i baristi credono che mi preoccupi di doverle pagare in più, mentre non è il borsellino che mi dà pensiero bensì l’amaro appuntamento con la mia bilancia, una volta tornata in patria. Insomma, i gentili baristi, ogni volta, se ne escono con le poche parole in italiano che a Lefkáda conoscono tutti: “Offre la casa!”.

Tento, allora, un’ultima carta: protesto che non posso, che sto diventando pakià (cicciona) e loro, comprese le gentili fanciulle, mi ridono allegramente in faccia.

Le ossessioni da semi-anoressiche delle mie connazionali con le loro diete vessatorie nonché perpetue, in terra ellenica sono percepite come ridicole.

Ah, quanto sono più saggi di noi i Greci!

Ma torniamo alla visita di Lefkáda, che ho deciso di fare lento pede, perché, lo avrete ormai capito, sono assai contraria al turismo intensivo.

Percorro a piedi una lunga striscia di terra: un istmo che collega alla terraferma Lefkáda, che un tempo era una penisola, e non un’isola come adesso. Osservo la bella laguna che vado costeggiando su uno dei due lati.

Arrivata alla fine dell’istmo, ho la fortuna di assistere alle interessanti manovre per alzare il ponte mobile. Passano vari battelli, quello dei miei connazionali deve aver transitato di qui ore fa.

Una volta che il ponte viene di nuovo abbassato, lo supero con baldanza e mi avvio verso una grande fortezza: il castrum di Santa Maura.

Si tratta di un grande complesso fortificato, eretto dai Franchi nel 1300 e successivamente restaurato dai Veneziani, quando incominciò la loro dominazione sull’isola, cioè circa nel 1500.

Per la cronaca, in epoca veneziana, “Santa Maura” era il nome di tutta l’isola.

Lo scopo di questa cittadella era quello di difesa dai… pirati e poi dai Turchi.

Ora tutto è in rovina; si tratta di uno spazio molto vasto e suggestivo che percorro in lungo e in largo, benedicendo la temperatura poco elevata: in altre condizioni atmosferiche sarei, infatti, morta di caldo e sicuramente mi sarei ustionata la pelle.

Voglio farvene vedere qualche scorcio:

 

Una volta salita quella scalinata sconnessa, in parte divorata dall’erba, sosto a lungo, seduta per terra, ai piedi di un’apertura tra le mura, perché ho voglia di riflettere con calma su una questione “filosofica” che, in questo viaggio, mi si sta rivelando capitale.

Niente paura: non ho nessuna intenzione di annoiarvi. Giuro che affronto l’argomento in maniera molto semplice. Partiamo dalla poesia di Kaváfis, che ormai spero vi sia diventata familiare.

Ebbene, avevo notato che c’era una resa italiana, in particolare di una parola, che mi lasciava alquanto perplessa.

Ecco il verso incriminato:

non precipitare il viaggio

Ora, nell’originale c’è il verbo biázomai, che racchiude il termine bía, ossia “violenza” e tale verbo indica un “fare violenza” o “subire violenza”, a seconda che lo si interpreti o meno al passivo.

Questo però solo in greco antico, quanto a quello moderno, lo stesso verbo, che suona viázome, ha assunto il significato di: “avere fretta”.

Me ne ero già accorta notando i tempi piuttosto lunghi con cui venivo servita nei vari locali, cosa che, ormai contagiata dalla flemma ellenica, era lungi dal darmi fastidio. Anzi, ai camerieri, ai baristi e ai ristoratori etc. facevo capire, per lo più a gesti, che potevano tranquillamente prendersela comoda. E ne venivo ricambiata con grandi sorrisi di sollievo da parte loro.

I Greci, per usare una loro espressione, dichiaravano di non amare la viassíni, che mi traducevano, talora, con “stress!”.

Ma non avevo fatto ancora tutti i collegamenti del caso.

Sicché, ho avuto un’illuminazione, proprio là, tra le rovine di Santa Maura, rileggendo per l’ennesima volta la fotocopia spiegazzatissima di Itaca di Kaváfis.

Ho capito che la vera violenza, per un Greco dei nostri giorni, è l’uso violento del tempo ossia avere e, di conseguenza, mettere fretta: questo è veramente il peggio del peggio che mai si possa fare!

Insomma, avrete intuito che con gli abitanti delle Ionie non parlavo solo di argomenti terra terra ma, grazie alla loro grande disponibilità e intelligenza, capivo sempre di più il loro modo di pensare.

Scusate se insisto: non si tratta da parte mia di una vacua goduria filologica: no, c’è in gioco molto, molto di più.

Se non avessi compreso questo particolarissimo modo di percepire il tempo, avrei vissuto, ad esempio, i quasi quattro giorni per arrivare ad Itaca e i tre dallo sbarco a Nydrí fino all’imbarco a Igoumenítsa come ore e ore oltremodo noiose, come un’interminabile tempo morto, e sarebbe stato un disastro… invece si è trattato di un tempo fecondo.

Basta con l’impazienza! Ci dice Itaca di Kaváfis.

Basta con la violenza temporale, ci dicono, in generale, i Greci.

Loro sì che sono saggi!

Ma la pianto qui, perché temo di star esaurendo la vostra di pazienza.

Concludo la giornata nel “vizio”. Beh sì, lo confesso, mi scolo un potente vodka Martini a bordo dei Piratés.

Dopo una cena non particolarmente leggera sul lungomare, con la signora che mi aveva offerto di tutto, compreso un ciclopico piatto di sagánaki (formaggio fritto) nonché un glicò (dolce) alle ciliege che, ovviamente, m’ero guardata bene dall’ordinare, cos’altro potevo fare?

In più ho un alibi formidabile: devo opporre resistenza al montare di una tristezza devastante perché è l’ultima notte che trascorro nell’arcipelago di cui fa parte Itaca.

Undicesima giornata: Lefkáda-Igoumenítsa

La mattina la dedico quasi interamente alla visita al museo archeologico di Lefkáda, che si trova nella parte estrema del lungolaguna, in direzione opposta da dove comincia l’istmo.

Là troviamo raccolto, molto ben catalogato e benissimo esposto, quello che è stato rinvenuto nell’isola addirittura fin dal medio paleolitico sino all’epoca romana.

In questo museo si trova la testimonianza inoppugnabile che nelle Ionie, e in particolare a Lefkáda, fiorì un’antichissima civiltà, che probabilmente ha forti legami con quella cretese-micenea, anche se i pareri in proposito sono tutt’altro che concordi.

Quanto è contenuto in questo museo testimonia il grande lavoro iniziato da un illustre archeologo tedesco, che morì (a 87 anni, nel 1940) proprio a Lefkáda e a cui si devono vari scavi capitali in terra greca, ad esempio, quelli di Olimpia, quelli nell’agorà di Atene, tanto per menzionarne solo alcuni, e, ovviamente, a Lefkáda stessa.

Il nome di costui è Wilhelm Dörpfeld.

Questo benedetto archeologo sostiene addirittura che l’Itaca di cui si narra nell’Odissea non sarebbe l’isola che attualmente porta questo nome, bensì… Lefkáda.

Ora, è chiaro che a me questa teoria fa saltare la mosca al naso: pensate un po’, io avrei sudato sette camicie, nonché imparato sulla mia pelle a non violentare il tempo, solo per raggiungere un’Itaca fasulla?

Eh no, accidenti!

D’altra parte, ho abbastanza cervello per rendermi conto che non posseggo competenze archeologiche nemmeno lontanamente paragonabili a chi ha dedicato una vita a scavi tra i più importanti che siano stati fatti in Grecia.

Il risultato del mio viaggio è molto, ma molto, più modesto, ma non per questo ne sono meno convinta.

E vi posso dire, oramai, quali sono le mie conclusioni.

Chiaro, va premesso che l’Odissea racconta eventi non storici, bensì mitici e, quindi, non ha nessunissimo senso domandarci se Ulisse sia vissuto per davvero o altre scemenze di questo genere.

Ma ciò nulla toglie a quello che ho sperimentato nella mia avventura, giorno dopo giorno, con l’Odissea sempre a portata di mano.

Perché adesso ve lo devo e ve lo posso proprio dire: sono fermamente convinta che colui, o meglio, che coloro, che composero questo poema ossia che cantarono il nóstos di Ulisse, avevano visto senz’altro Itaca o, quanto meno, avevano avuto uno stretto contatto con chi l’aveva vista.

Mi si obietterà che l’Odissea narra di paesi e di popoli leggendari e che è una battaglia persa situare qua e là nel Mediterraneo – o, peggio, ancora più a Nord – le varie tappe delle lunghe peregrinazioni ulissiche.

Beh, a me dove possono situarsi i Lestrigoni, i Ciclopi, i Lotofagi, le isole dei Feaci, di Circe e di Calipso eccetera non interessa un fico e, soprattutto, non mi riguarda.

Io posso parlare solo di Itaca e di quello che ho provato cercando di percorrere il sentiero che mi portava verso le stalle di Eumeo oppure guardando dall’alto il porto di Forco o, ancora, dove era ambientato l’agguato dei proci a Telemaco.

Sarò pazza da legare, ma un sacco di versi dell’Odissea, versi con cui ho punteggiato – spero non annoiandovi – la meticolosa cronaca dei giorni scorsi, non hanno fatto altro che far nascere e consolidare vieppiù questa mia convinzione.

Per capire dall’interno l’Odissea, per viverla, un viaggio ad Itaca è la via regia, punto!

Dopo aver spudoratamente affermato quello che avete appena letto ed essendo pronta a sostenerlo hasta la muerte, torno ad una cronaca decisamente più prosaica.

Il resto della mattina lo dedico a far visita a Giorgina. Come potete immaginare, la ringrazio caldamente e prendo con lei gli ultimi accordi per il taxi che mi porterà ad Igoumenítsa.

Dovrò trovarmi alle otto di sera davanti alla vetrina della sua agenzia.

Ho, quindi, tutto un pomeriggio vuoto davanti a me.

Ma ormai la so lunga su come non aver fretta, su come passare le ore senza impazienza.

Quello che mi pesa alquanto è che mi conviene non mangiare granché, né bere niente di alcolico, perché dovrò stare sveglia fino a mezzanotte e non mi sarà concesso nessun pisolo ristoratore nella pensione, che ho dovuto abbandonare fin da mezzogiorno.

Per cui bivacco in qualche bel bar del lungolaguna o della piazza principale, dove ormai mi conoscono di vista.

Individuo anche una modesta chiesetta e vi sosto a lungo perché, pur essendo agnostica, ho sempre avuto un debole per i luoghi di culto ortodossi, per le icone e per le candele che, non in questo specifico caso, di solito sono piantate su di una base di sabbia.

Insomma, arrivano le otto di sera e m’incontro con chi mi porterà all’imbarco: un ragazzone e, presumibilmente, la sua fidanzata, entrambi amici di Giorgina.

Non voglio sapere se lui è un taxista di professione o meno; la tariffa che mi chiedono non è esosa e non voglio nemmeno immaginare che viaggio orrendo sarebbe, invece, stato col “camorrista”.

Siccome la compagnia dei due ragazzi si è rivelata simpatica, vorrei offrire loro qualcosa da bere. Ma i due rifiutano perché hanno un appuntamento per cena.

Mi ritrovo così con almeno tre ore – ammesso che la nave salpi puntuale, e così non sarà – in un posto da incubo.

Apparentemente la stazione del porto di Igoumenítsa è moderna ed efficiente, ma la fauna che la popola è decisamente inquietante.

Ripeto: sono tutto fuorché razzista e prevenuta, inoltre non sono per niente paurosa, tuttavia, guardandomi attorno m’accorgo d’esser capitata, mi si perdoni l’espressione politicamente scorretta, in mezzo alla “feccia dei Balcani”.

E poi, come se non bastasse, sono l’unica donna – le altre, presumibilmente, son tutte al sicuro nelle loro belle vetture coi loro bei mariti o compagni e non appiedate come me – nel raggio di un kilometro. Anzi forse di più, perché faccio per uscire in cerca di un bar più decente o di un ristorantino, ma sono subito scoraggiata da una serie di raccordi stradali che non sono certo adatti ai pedoni.

E dovunque vedo ceffi che ve li raccomando.

Non mi resta che tornare all’interno della stazione marittima dove m’immergo nella lettura dell’unico canto dell’Odissea che avevo omesso di rileggere per intero: l’undicesimo, ossia la discesa nel regno nei morti.

Decisamente in carattere con la situazione…

E, come Ulisse, spero di uscire viva da questa mia avventura.

Dodicesima giornata: traversata-Ancona-Bologna-Padova

Durante la traversata di ritorno non mi succede niente d’interessante. Il mare è meno mosso e, questa volta, non incontro nessuna emula di Brigitte Bardot.

Peccato!

Ancona continua a presentarmisi poco accogliente e i treni sono tutti in ritardo, in modo che, nottetempo, sosto dei tempi supplementari nella stazione di Bologna.

Ma, dopo Igoumenítsa by night, la cosa non mi fa né caldo né freddo.

Insomma, non mi accade nulla che meriti d’esser raccontato.

Molti ricordi e molte sensazioni di questo breve viaggio mi mulinano nella testa.

Un viaggio troppo breve.

Comincio, allora, a progettare di tornare in Grecia.

Siccome, nonostante tutte le difficoltà logistiche che ho incontrato, resto una fanatica dei viaggi fuori stagione, penso di cambiare strategia.

M’imbarcherò ad Ancona, o meglio ancora a Venezia, e scenderò a Patrasso, ma non fisserò in anticipo nessuna nave o aereo di ritorno.

Ne ho abbastanza di simili scadenze che mi strozzano!

Perché ho scelto Patrasso, anche se so che di là, fuori stagione, non parte nessun traghetto?

Perché il mio prossimo viaggio sarà via terra, con vari mezzi pubblici, e avrà come fine l’esplorazione del Peloponneso. Sono tantissimi là i luoghi che non ho visto o che ho visto oramai una vita fa. Non ho mai visitato, ad esempio, né Olimpia, né Epidauro, né la penisola del Mani.

Nonostante gli anni per me passino inesorabili, affronterò un viaggio “sulla strada”, con il bagaglio il più esiguo che potrò. Tra l’altro, voglio riscoprire meglio una delle civiltà che si lega a quella, antichissima, delle Ionie e di Itaca: la civiltà micenea.

Solo dopo sarò, forse, pronta per affrontare l’antico ombelico della Grecia arcaica: Creta.

Perciò, nel prendere congedo da voi, cari e pazienti lettori, mi vien da dirvi: “Alla prossima!”.